Il giorno della Candelora

(Il brano è tratto da “La Gente della Terra di Mezzo”, di Giuseppe Tecce)
È il giorno della Candelora, e guardando attraverso i vetri della finestra, scorgo una bellissima giornata di sole. Mi affaccio, l’aria è fredda, pungente, insensibile. Un sottile strato di ghiaccio ha ricoperto tutto il mondo nel raggio del mio sguardo: i tetti, gli ulivi, i fili d’erba, l’orto, i boschi, e tutto il promontorio delle Surte. Sembra di essere finiti in un luogo incantato, fascinoso e a tratti estraneo. Anche le auto parcheggiate hanno subito la stessa sorte, e la stessa Celestina è ricoperta da uno spesso strato bianco, che ne cambia, quasi, i connotati. Mi sono stropicciato gli occhi, ed ho dovuto aguzzare la vista per poter vedere meglio sotto quella patina e riconoscerne la forma. Si, è lei, e sembra quasi chiamarmi per una partenza avventurosa. Non vedi che bella giornata di sole, mi sta dicendo. Certo fa freddo, l’aria asciutta tra poco si riscalderà sotto il lavorio incessante dei raggi solari, e, di certo, non è il giorno più adatto per starsene a casa a poltrire. In effetti, guardando intorno mi accorgo che la giornata è piena di luce, ed il cielo terso, gonfio di un azzurro pari a quello della mia Celestina, invita a ben altre avventure.
Teresa, il giorno della Candelora è un giorno sacro per le popolazioni dell’Appennino. È il giorno che decide, di fatto, se siamo usciti dall’inverno, o se ci siamo ancora imbrigliati dentro. Fa parte di quei saperi antichi di cui spesso ti ho parlato e che rappresentano l’essenza stessa della cultura contadina, intrisa di cristianesimo e di paganesimo, senza neppure saperlo. Il giorno del 2 febbraio era, già in antichità, dedicato alla dea Iunio Februa, ossia Giunone Februata, dea che era propiziatrice della guarigione dalle febbri, che anche anticamente, circolavano proprio in questo periodo. In antichità le donne, già dopo le calende di gennaio, giravano per le strade reggendo in mano fiaccole accese, per purificare i campi e le città, cosa che è stata pari pari ripresa dal rito delle candele accese della candelora. Ancora una volta torna l’antica contrapposizione tra la luce e le tenebre. Così come nel giorno di Santa Lucia si accendono falò su tutta la dorsale appenninica, per propiziare la vittoria della luce sulle tenebre, cosa che avverrà nel giorno del Sol Invictus, cioè il 25 di Dicembre, così nel giorno della candelora, si celebra la vittoria definitiva della luce. Le giornate sono decisamente più lunghe, la natura si prepara alla primavera ormai prossima e nell’aria si percepisce un sentore forte di vita. La morte delle tenebre è stata sconfitta, si deve festeggiare. Si tratta di riti che si perdono nella notte dei tempi, preservati, oggi, dal cristianesimo che si è fatto portatore e custode di quegli antichi saperi. E di luce, oggi, ce n’è in abbondanza, sembra quasi soverchiare, a tal punto che per guardare oltre il tetto bianco della casa di fronte, devo strizzare gli occhi, filtrando la luce per osservare i boschi immobili e ghiacciati della collina a sud ovest.

La decisione è presa, oggi, tanto per cambiare, si esce. Destinazione: ignota. Intanto si esce, si deciderà poi, con Celestina, dove andare.
Vestito di tutto punto scendo in cortile, e Celestina vista da vicino è ancora più impressionante: lo strato di ghiaccio che la ricopre è più spesso di quanto potesse apparire. Entro, metto in modo. Mi sembra di essere nel castello di Frozen. Al di là del freddo, che sarà facilmente abbattuto dall’aria calda che uscirà copiosa dai bocchettoni frontali, devo trovare un rimedio per pulire i vetri, in particolare quello anteriore, quello posteriore e quello superiore che mi impedisce di guardare ciò che più amo, cioè il cielo. Vado in garage, da qualche parte devo aver sistemato il raschietto per il ghiaccio. Credo di averlo usato di rado e, di sicuro, non lo uso da un paio di anni. Capire dove sia finito è un’impresa ardua. A sensazione apro il baule di plastica che sembra chiamarmi sulla destra. Mi metto a scavare e giù, in fondo, vedo sporgere il lato affilato del raschietto. Sono stato fortunato, lo tiro fuori e in pochi minuti faccio la barba a Celestina, liberando, di tutto punto, i vetri dall’acqua bianca che li copriva. Il resto della carrozzeria resta imprigionata tra i ghiacci che ne ammorbidiscono il colore, facendolo apparire di un bell’azzurro pastello. Non mi preoccupo. So che non appena avrò voltato l’angolo, uscendo dalla zona d’ombra, il sole farà il suo dovere, ripulendola completamente dalla corazza fastidiosa.
Il motore è ben caldo, i due cilindri spingono a dovere ed il passaggio automatico dalla benzina al gas sembra quasi far spegnere il motore, una sorta di extrasistole del cuore meccanico, presto compensata dalla spinta decisa dei pistoni. Siamo pronti, mi siedo, mi aggiusto, metto la cintura e partiamo. Svolto l’angolo e, come previsto, la sfera infuocata del sole mi investe con tutta la sua potenza benefica. Cammino piano per far durare il più a lungo possibile il momento, magico e carico di benefico calore. Schiaccio un po’ di più sul pedale dell’acceleratore ed il turbo comincia a fare il suo lavoro. Tutto gira come si deve, tranne l’idea di dove andare. Decido di lasciar fare tutto a Celestina ed al caso: esco sulla via principale, svolto a sinistra e poi a destra. La via è larga e comoda e dopo un paio di rettifili e qualche curva mi ritrovo a Castel Del Lago, una piccola ma movimentata frazione di Venticano, famosa solo perché qui si effettua il cambio dei pullman che vanno a Napoli, ed anche per via della fermata del bus per Roma. Ovunque c’è gente che è costretta a spostarsi, per motivi di lavoro o, peggio ancora, per motivi di salute. Su uno di quegli autobus, mi è capitato, un giorno, di conoscere delle persone che avevano fatto un processo migratorio inverso, cioè dalla grande città, Napoli, si erano trasferite nel nostro territorio, considerato, a loro dire, più vivibile e a dimensione d’uomo, mantenendo il lavoro nella grande città. Ciò lì costringeva ad un pendolarismo quotidiano, che affrontavano con un gran sorriso sulle labbra e con grande forza di spirito. D’altronde, mi confidò uno di loro, se pure fossi rimasto a Napoli, avrei impiegato lo stesso tempo per andare a lavoro. Arrivare da Fuorigrotta al Centro Direzionale, soprattutto di mattina o nelle ore di punta, avrebbe implicato di rimanere imbottigliati nel traffico, con conseguente stress e peggioramento della qualità della vita. Si, è vero che da qui non vedo il mare, continuò, ma sono circondato da un immenso mare verde che, ogni mattino, mi riempie di gioia e di serenità. Teresa, il mondo è pieno di storie come questa, che, per quanto strabilianti possano sembrarti, ti fanno pensare alle mille sfaccettature dell’animo umano, ed io sono sempre convinto che, alla fine, resta pur sempre una questione di karma. Però permettimi di pensare, in modo forse un po’ troppo poetico, che svegliarsi all’alba con il canto del gallo non ha eguali, e d’altronde i pesci del golfo non fanno rumore. Teresa, preferirò sempre l’entroterra al mare, è il mio destino, il mio personale karma.
Tutta questa storia dei migranti al contrario, mi ha fatto pensare ad un amico, si chiama Carlos, che ha, anche lui, una storia bellissima di migrazione all’inverso. Abbiamo trovato l’obiettivo della giornata, fare due chiacchiere con lui per farci raccontare la sua storia.
Come spesso accade, Celestina aveva già imboccato la via giusta, e forse aveva già immaginato dove saremmo andati a parare e doveva solo trovare il modo di comunicarmelo. Da Castel del Lago proseguiamo dritto. La via è piuttosto agevole e, dopo esser passati sotto al cavalcavia dell’autostrada per Bari, unico segno di modernità in questa terra antica, qualche curva ci porta sulla sommità di una collina da cui si domina la valle sottostante tracciata dal fiume Calore. Ancora qualche curva e ci accoglie il ridente villaggio di Calore, che prende il nome dall’omonimo fiume che lo attraversa. Si tratta di un piccolo agglomerato di case che costituiscono una frazione del ben più grande centro di Mirabella Eclano, che, però, dista da qui ancora qualche chilometro. Celestina lo attraversa con naturale disinvoltura, fino a quando si presenta la prima vera salita della zona, che da questo punto in poi è fatta di colline dolci, anche nell’aspetto, con un continuo sali e scendi che ben si potrebbe associare all’idea delle montagne russe.
Celestina arranca, il piccolo motore ruggisce, devo scalare la marcia, arrivando fino alla sommità della salita, che attraversa tutto il piccolo centro abitato, sfociando, di nuovo, sulla nazionale che avevamo lasciato più in basso. Lascio passare due autovetture che sfrecciano verso il fondo della valle, per immettermi sulla nazionale. È un susseguirsi di belle costruzioni moderne, con rifiniture ben fatte e tetti spioventi, in uno stile quasi nordico. E poi capannoni adibiti a depositi e supermercati. I grandi supermercati sono il segno più tangibile della modernità. Sono arrivati ovunque, soddisfacendo i principali bisogni di tutti, un po’ come i grandi mall dei cinesi, che pure si susseguono numerosi lungo questo tratto di strada. Senza quasi accorgermene ricomincia la salita, dura, sfiancate e lunga. È la stessa che facevo in sella alla mia bicicletta, con la dovuta lentezza e con il gusto di ammirare il panorama. Il panorama è sempre lo stesso, dolci colline baciate dal sole, vigneti, la bella sede di degustazione di Mastroberardino, che col suo rosso pompeiano risalta dentro a quell’immenso mare di verde. Sono giunto a Piano Pantano, l’ennesima manciata di case sparse lungo il nastro della strada. Il nome la dice lunga sulle condizioni storiche del luogo, sicuramente luogo di raccoglimento delle acque piovane, che, forse in passato erano più copiose di adesso, formando dei pantani, che si sa, sono poco salubri. Ma neppure questo ha fermato la mano dell’uomo, desiderosa di farsi spazio su questa terra, addomesticando, per quanto possibile la natura e rendendola vivibile. Al termine della striscia di case, dopo aver superato la zona archeologica dell’antica Aeclanum, l’ennesima salita, ripida, dritta, sale sul crinale della collina, sulla sommità della quale svetta un bell’esemplare di Pino marittimo. Attraversato l’abitato del Passo di Mirabella, ennesima frazione della vicina Mirabella Eclano, prendo la strada che svolta a destra, in direzione di Frigento. Due centri commerciali, posti l’uno di fronte all’altro mi accolgono al passaggio, con decine di macchine parcheggiate a destra e a sinistra. Non sono ammesse distrazioni, manca ancora un pezzo di strada, e, manco a farlo apposta, sarà tutta in salita. E che salita, dura sfiancante, per chi la doveva percorrere a piedi nell’antichità, per le bestie da soma caricate di tutto punto, che erano costrette a seguire i mercanti dell’epoca, per i ciclisti che vi si avventurano ancora oggi, ed anche per le autovetture che nel giro di pochi chilometri sono costrette a salire ad un’altezza di quasi mille metri. La via diventa tortuosa, e ad ogni curva si sale di parecchio. I tornanti sono larghi, ed agevoli. Celestina, nonostante il suo piccolo cuore, si trova perfettamente a suo agio e sembra quasi divertirsi, senza risentire dello sforzo della passeggiata. Sento il sibilo del turbo, che ogni tanto prende vita, spingendo la pimpante Celestina su per il monte, e con essa, anche me, che ho l’onore di guidarla. All’improvviso la via diventa dritta come la lama affilata di un coltello. Bisogna essere attenti, perché invoglia a correre, ma le insidie sono sempre dietro l’angolo. La prima e più insidiosa delle distrazioni è data, come sempre, dal paesaggio, che da quassù comincia ad essere di tutto rispetto. Sulla destra svetta il monte Tuoro, in tutta la sua imponenza e subito dietro prende forma il massiccio dei Monti Picentini. Le valli scavate tra il promontorio del Formicoso, sul quale mi sto arrampicando, ed i monti posti di fronte sono attraversate da diversi fiumi, denotando immediatamente un territorio ricco di acqua e di fertili terre. Il bacino imbrifero posto sotto al massiccio dei Monti Picentini è il più grande d’Europa e disseta le popolazioni di gran parte della Campania e quasi l’intera Puglia. Un prezioso contenitore che ha generato vita e ricchezza nella zona, oggi, troppo spesso mal amministrato e sacrificato in nome del Dio denaro.
Il bivio per Gesualdo mi accoglie con semplicità: un cartello informativo con una freccia, mi indica di svoltare a destra e di proseguire, poi, dritto per giungere in paese. La strada si fa leggermente in discesa: svetta maestoso il grande castello che fu dimora di Carlo Gesualdo, principe di Venosa. Forse sarebbe il caso di chiamare Carlos, per avvisarlo della mia presenza in paese per fare due chiacchiere con lui. A ben pensare, potrebbe anche non essere qui. Il sole splende anche per lui, e potrebbe essere andato ovunque. Mi accosto al margine della strada, mi fermo e provo a telefonarlo. Il telefono squilla a vuoto: ecco, potrebbe essere impegnato in altre attività e forse sono venuto inutilmente. Uno scrupolo attraversa la mia coscienza: dovevo accertarmi prima della sua disponibilità. Riprovo a chiamare ed ancora il telefono squilla a vuoto. Nulla da fare, butto lo smartphone sul sedile vuoto accanto a me, inserisco la marcia e lentamente mi avvio verso il centro abitato. Sono arrivato fin qui, di certo non posso tornare indietro e troverò qualcosa da fare. Pensavo così quando il telefono comincia a squillare, il tempo di riaccostarmi al margine della strada: Pronto, Giuseppe, soy Carlos! L’accento fortemente spagnolo mi fa intendere subito che si tratta proprio di Carlos. Un sorriso mi si stampa sul volto, sembro quasi inebetito. La giornata pare stia prendendo la piega giusta.

Pubblicato da Giuseppe Tecce

Scrittore di saggi e romanzi

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