poesie e racconti

Benevento città mia

Benevento,città mia.

Rinacqui tre volte

In questo luogo.

La prima fui Diomedes,

quivi approdai

dopo aver usurpato Palladio.

Riservai per questa urbe

un dente

di calidonio.

Qui fondai

il mio regno

anelando perdono

da Afrodite!

Guidai genti

nel ver sacrum

rendendole  edotte

nell’uso del cavallo.

Il mio regno

Era da occidente ad oriente

e lo lascia ai Safinei

in cambio di eterna gloria.

La seconda fui Aset,

fui trono,

fui madre

e progenitore

di orde di janare.

Sacerdotessa fasciata di bianco

governai col cenno del capo,

e fiori e fiori

per abbellire la mia

essenza invisibile.

Regina caeli,

madre di tutte le madri

e di tutti i padri,

fui dominatrice

dei due fiumi

che feci unire

al mio cospetto

in unico progetto.

<Tu quidem Sancta

et humani generis

sospitatrix perpetua,

semper fovendis

mortalibus munifica,

dulcem matris

adfectationem miserorum

casibus tribuis>

La terza:

IO SONO.

O Santa e sempiterna salvatrice del genere umano, prodiga dispensatrice di grazie in favore dei mortali, tu offrì il tuo affetto di madre ai poveri che soffrono

Sul treno

Sul treno
Crocevia di colori inconfondibili
Impossibile dire il vero
Sul treno.
Riverberi di luce
Tra sconfinate pianure di silenzio
Tagliate a freddo
Senza respiro
Senza che neppure il prato
Possa gioirsi del suo caldo rantolarsi.
Eppure scorrono eterni
I suoi assi paralleli,
Dritti al mondo
Diretti al cuore.
Un inchino,
un saluto,
occhi che scorrono frettolosi
sulle righe ritorte
di mille spruzzi d’erba.
La rupe si dimena
Si contorce,
si apre,
si chiude
si spezza
muore
nasce
e tutto ancora.
Saluto il mondo di lassù.
Saluto gli alberi vetusti
I giovani arboscelli
Le fresche acque dei torrenti
Le oche starnazzanti
Le rane gracidanti.
Sul treno
Crocevia di colori inconfondibili
Impossibile dire il vero
Sul treno.

L’inoculazione, la caduta ed il volo

Andrea andò a fare il vaccino con meno spensieratezza delle altre volte. Era arrivato alla terza dose, e non sapeva se essere felice per esserne rimasto ancora indenne o essere dispiaciuto per il fatto che si sentisse quasi un tossico alla ricerca spasmodica della prossima dose.

Arrivò al centro vaccinale trafelato, avendo in mente le parole di Genny: lo sai che Adele dopo la terza dose, una volta a casa, è svenuta, cadendo e procurandosi una profonda ferita sulla guancia e sulla fronte.

Andrea mostrò la prenotazione al tipo davanti al cancello, ottenendo un ticket, necessario per mettersi in coda davanti all’ingresso. Attese per  40 interminabili minuti prima che la fila scorresse e si ritrovasse faccia a faccia con l’operatore della protezione civile, che con modi scortesi lo invitò ad entrare e a recarsi presso lo sportello per validare la prenotazione.

Il contrasto tra l’aria esterna, fredda, e l’aria calda interna provocò l’appannamento degli occhiali, e la mascherina FFP2 malmessa fece il resto, peggiorando la situazione.

Che caldo, pensò, mentre era in coda nell’ampio atrio della vecchia caserma, adibita a centro vaccinale.

L’ansia non si teneva più dentro e strabordava in tanti modi : dapprima la gamba destra cominciò a muoversi come impossessata, poi si ritrovò a tamburellare col piede sul pavimento ed infine ad allargare il girocollo, che pareva stringersi attorno alla gola, tirandolo col dito indice della mano destra.

Si guardò intorno. Era circondato da un’umanità varia e sconosciuta. C’era il tizio basso e largo, guance rosse e giubbotto sbottonato, quello di sicuro avrà la pressione alta, pensò. C’era la tipa magra magra, appena ingobbita, con il mento nascosto nel lembo più alto del cappotto di panno pesante, ed abbottonato fino all’ultimo bottone. Il ragazzino, dietro, sbuffava, mentre la distinta signora, di lato, sospirava per l’ansia e per passare il tempo. La fila scorreva lenta e l’omino allo sportello era piuttosto pignolo: voleva la tessera sanitaria ed un documento. Ne leggeva il codice a barre con uno scanner e poi stampava tre fogli che consegnava al paziente di turno, indicandogli, poi, la via da seguire. Quando fu il turno di Andrea, terminata la solita trafila dei documenti, lo instradò verso sinistra. Ecco vede quella coda? Si metta li dietro, ed aspetti il suo turno.

Siamo dei pazienti, disse Andrea sorridendo, ci sarà pur un motivo….

Si spostò in fondo all’ulteriore coda, reclinò il capo. La mascherina affaticava la respirazione, la scostò leggermente dalla bocca per prendere una boccata di ossigeno, fu investito da un fetore misto di azoto e zolfo. Qualcuno aveva scorreggiato, ma l’uso comune delle pesanti mascherine ne aveva attenuato l’effetto sulla popolazione.

Furono altri 20 minuti di attesa. Arrivò il suo turno e fu mandato in una stanza, grande quanto un intero trilocale. Parlò con un medico, seduto dietro ad un banco, di quelli scolastici, piccoli. Firmò un foglio di accettazione del vaccino che stavano per somministrargli e finalmente si mise in coda per accedere alla sala vaccini.

Le sale vaccinali erano divise : sulla sinistra si apriva la sala riservata alle donne e sulla destra quella riservata agli uomini.

Entrarono in cinque e presero posto sulle cinque poltroncine disposte a raggiera nella stanza. Passò l’infermiera, con cinque siringhe già pronte poggiate orizzontalmente in un vassoio metallico. Toccò ad Andrea. Scoprí il bicipite e si lasciò praticare l’iniezione. Fu indolore e priva di sensazioni.

Fu accompagnato nella sala di attesa post vaccino, dove, dopo ulteriori 15 minuti, gli fu consegnata l’attestazione di avvenuta somministrazione e fu libero di andar via.

Uscì dalla porta laterale, abbassò la mascherina e finalmente poté respirare ossigeno, fresco ed inodore.

Il pensiero di Adele, del suo malore, e le parole gravide di pathos di Genny, si insinuarono ben presto nella sua testa. Quando arrivò allo sportello della macchina ebbe una vertigine, la vista gli si annebbiò, gli tremò la mano.

Tornò a casa guidando in maniera distratta, a tratti pensò di non ricordare più nemmeno la strada.

Parcheggiò la 500 X amaranto proprio sotto casa e corse nel suo appartamento.

Bevve con ingordigia un’intera tazza di acqua. Era solito usare le tazze in luogo dei bicchieri, perché più capienti. Si toccò il punto esatto del braccio in cui era stato iniettato il farmaco e non sentí dolore.

Strano, pensò, nelle due precedenti somministrazioni il braccio era stata la prima parte del corpo a dolermi, ed ora mi dolgo per il mancato dolore.

Riguardò con attenzione il selfie che aveva scattato al momento del vaccino. Era indubbio: l’ago era stato infilato nella carne. L’idea che l’infermiera avesse fatto una finta iniezione era da scartare completamente.

Si sedette sul divano. Il televisore trasmetteva immagini colorate,  senza l’audio, che era stato eliminato. Passarono due ore, si trascinò in cucina per prepararsi il pranzo.

Terminò in fretta. Non avvertiva né il dolore al braccio, né sintomi di altro tipo. È impossibile, pensò, Adele è svenuta dopo il vaccino. Devo restare vigile ed in attenzione, che da un momento all’altro toccherà anche a me.

Passò ancora un’ora,  ma nulla di strano accadde. Accese un fornello, poi lo spense, pensando fosse pericoloso. In caso di mancamento, non solo si sarebbe spaccato il volto, ma avrebbe rischiato finanche di bruciarsi.

Si spostò, quindi, in camera da letto. Avvertì un lieve dolore al piede sinistro ed un accenno di zoppia. Prese la stampella che aveva riposto nell’armadio tempo addietro, ed utilizzata per via di una caduta.

Camminò con quella all’interno della casa per abituarsi. Simulò più volte una caduta, ma, di fatto, la caduta non arrivò , e nessun mancamento gli si presentò.

Le parole di Genny gli rimbombavano nella testa: se Genny aveva pronunciato quelle parole, non poteva essere altrimenti. Prima o poi, come è accaduto ad Adele, io mi ritroverò in terra, spaccandomi lo zigomo o forse la fronte.

Pensò che la cosa più saggia sarebbe stata quella di riempire il pavimento di cuscini e di altro materiale morbido, che avrebbe potuto attenuare la caduta, in caso di necessità. Così fece, cospargendo l’ampio pavimento di guanciali e cuscini da divano. La casa divenne un tappeto colorato e soffice, che avrebbe potuto fare la felicità di qualsiasi bambino.

Si sedette poi sull’ampio divano, restando in ascolto del proprio corpo, delle proprie emozioni, delle proprie sensazioni. Rimase così per tre ore, nel silenzio, pensando a Genny e ad Adele.

Poi dalla schiena gli spuntarono due ali e, senza saperne il perché, volò via.

 

 

 

Giovanni e la bocca sana 

 

Giovanni, 46 anni, operaio edile in attività. Busta paga di circa 1200 euro mensili, tre figli, una moglie a carico, ed una casa di proprietà, frutto di un’eredità maturata qualche anno prima, con la morte del padre, e per la quale aveva dovuto pagare un’esosa tassa di successione.

La mattina del 15 Aprile, durante la pausa pranzo, sul cantiere, addenta un croccante marsigliese farcito con della profumata mortadella. Un dolore sordo, seguito da un crack, nella parte laterale della bocca, gli promuove una lacrima. Continua a masticare, il dolore aumenta, e si accorge di avere un corpo estraneo in bocca. Sputa in un fazzoletto, e vede un frammento piuttosto grosso di un molare e da quel momento comincia la sua odissea nella sanità pubblica.

Giovanni, fino a quel momento non aveva mai avuto grossi problemi di salute e si era curato sempre con una sorta di fai da te con il supporto del medico di base. Ma l’esperienza che stava per iniziare avrebbe cambiato per sempre il suo rapporto con il mondo della sanità. Il dolore al molare rotto aumenta con il passare dei giorni, la gengiva si gonfia e si rende necessario fare una visita dal medico di base: dottore ho, presumibilmente, un ascesso ad un molare. Ho bisogno di una visita odontoiatrica e vorrei farla in ospedale. Il dottore lo ascolta, gli guarda la bocca e sentenzia: sei certo di voler andare in ospedale? Non credo che ti cureranno il dente, al massimo ti proporranno un’estrazione. Dottore, suvvia, disse Giovanni sorridendo, se necessario me lo cureranno. Perché eliminare un dente, se ancora si può fare un lavoro di recupero? Il dottore alzò le spalle ed eseguì quanto gli era stato richiesto, scrivendo al pc una ricetta per visita odontoiatrica.

La mattina stessa, Giovanni chiama il CUP del locale ospedale civile, chiedendo una prestazione odontoiatrica, forte del fatto di essere in possesso di una regolare prescrizione medica. La donna dall’altra parte del telefono, dopo una breve pausa di riflessione, sentenzia: la visita con la ricetta la possiamo fissare per il 5 Maggio. Ma di questo anno? scherza Giovanni, ignaro dei gangli della sanità pubblica. Si, signore il 5 Maggio di quest’anno, rispose la donna. Ma, signora, io ho un ascesso dentario, e non posso aspettare per un tempo così lungo. Signore, proruppe la donna con tono scocciato, la sua ricetta non ha la caratteristica dell’urgenza. Se ha bisogno di una visita urgente chiami il suo medico e si faccia sostituire la ricetta. Giovanni riaggancia meravigliato e ritorna dal proprio medico di base, fa di nuovo la coda in sala di attesa e al momento in cui si ritrova faccia a faccia con il dottore gli chiede spiegazioni del perché non gli abbia fatto una richiesta di visita urgente. Il medico si scusa in qualche modo, annulla la ricetta emessa, e ne scrive una nuova con la dicitura di urgenza. Giovanni, che intanto ha già perso una giornata di lavoro, esce dallo studio, e considerata l’ora non può più chiamare il CUP. Lo avrebbe fatto l’indomani mattina. Con la ricetta alla mano, telefona e parla, questa volta con un uomo. Salve, sono Giovanni, ho bisogno di una visita odontoiatrica d’urgenza. Certo signore mi fornisca il numero della ricetta , scritto in alto a destra sotto al codice a barre: inizia per 1500 A. Giovanni cerca il numero e glielo detta. L’uomo risponde: bene, vedo che ha una richiesta di urgenza, pertanto potrà venire a fare la visita Giovedì pomeriggio alle 15. Si presenti al CUP alle 14, paghi il ticket, e poi sarà libero di recarsi in ambulatorio. Ma oggi è Martedì, dice Giovanni alzando il tono della voce, e dovrò aspettare ancora due giorni per essere visitato? Il molare mi duole. Mi dispiace signore, il primo posto disponibile è per giovedì alle ore 15. Le confermo la prenotazione? Va bene, risponde Giovanni, con un moto di rassegnazione. Giovedi alle 14 Giovanni si presenta al CUP. Ha dovuto lavorare mezza giornata. Alle 14.30 paga il ticket e si reca presso l’ambulatorio odontoiatrico. Il dottore è in ritardo e tutte le visite saranno spostate in avanti di un’ora. Alle 16 finalmente entra nella sala medica. Si siede sulla poltrona e dopo aver spiegato al medico l’accaduto, apre la bocca per farsi visitare. Il dottore esplora il cavo orale con lo specchietto, ed effettivamente, trova l’ascesso. Tocca il dente, lo guarda, poi chiede a Giovanni di alzarsi. Si spostano verso la scrivania, dove il dottore, incrociate le dita delle mani, con i gomiti appoggiati sulla scrivania, dice: Senta Signor Giovanni, il suo dente non è in condizioni tali da dover essere estratto. Si può curare e con una capsula avrà un dente come nuovo. Bene, esclama Giovanni, quando possiamo cominciare la cura? Forse non mi sono espresso bene, continua il dottore, con aria incupita: noi non possiamo curarle il dente e men che meno possiamo incapsularlo. E’ un tipo di lavoro che possiamo eseguire in rari casi, previsti espressamente dalla legge, per persone che si trovino in una grave condizione di vulnerabilità sanitaria o sociale, e credo che lei non rientri in nessuna delle due categorie, pertanto le prescrivo un antibiotico per ridurre l’ascesso, ed un antidolorifico per ridurre il dolore. Poi le consiglio di rivolgersi ad uno studio odontoiatrico privato che pratica la chirurgia conservativa del dente. Giovanni, lo guarda con meraviglia e si ricorda delle parole del medico di base. Si alza e saluta il dottore con gentilezza, ma con il cuore in frantumi per la delusione. Giovanni ha perso all’incirca due giornate di lavoro, i soldi del ticket per la visita presso l’azienda ospedaliera locale, ed uscito dall’ospedale chiama il medico dentista il cui numero gli è stato fornito dal cognato. L’appuntamento è per la sera stessa alle 19, per iniziare il percorso medico che lo porterà ad avere, di nuovo, una bocca sana, ed un portafogli molto più leggero. (Dicembre 2022)

 

 

Nelle pieghe silenziose

Nelle pieghe silenziose dell’Alta Irpinia,
si nascondono case, sospiri di pietra.
Sfumature di grigio e di memoria,
intrecciano i giorni in un abbraccio di nebbia.

Qui, dove il tempo sembra fermarsi,
ogni angolo sussurra di storie non dette,
e i passi riecheggiano, echi di un tempo altro,
in un paesaggio che abbraccia il cielo.

La nebbia, timida danzatrice,
si avvicina e si allontana in un dolce gioco, celando e svelando i segreti del villaggio,
dove ogni cuore batte al ritmo della terra.

In queste case, dove il silenzio parla,
ogni finestra guarda al domani,
mentre l’anima del paese,
sogna sotto il velo di un tramonto senza fine.

 

 

 

 

 

 

Sopra i tetti

Sopra i tetti, il cielo si tinge di un grigio plumbeo, che riflette i pensieri dei suoi abitanti.
Un filo di storie appese, i panni che raccontano la vita quotidiana con i loro colori vivaci.
E là, una parabola che ascolta i segreti del vento, i sospiri delle colline, la voce lontana delle stagioni che cambiano.
Questo è il teatro delle piccole esistenze, dove ogni finestra custodisce un racconto, ogni antenna cattura sogni, e ogni molletta lascia il segno, delicato, sull’epidermide del tempo.