Camminatori camminammo sulla cima dell’Appennino, attraversando terre, che all’apparenza, parevano desolate. Le vecchie insegne, ancora sospese ai pali che le avevano sostenute per tanto tempo, cigolavano, mosse appena dal soffio del vento. Tutto intorno si riempiva di poesia e di luce. Di quella luce che acceca e lascia una macchia gialla sulla cornea, che ti rende cieco nei luoghi oscuri, come se avessi perso il centro dello sguardo. Il silenzio saliva dalle valli, galoppando su cavalli invisibili e invadeva le rovine, con la morbidezza dell’ovatta, restituendo una voce muta alle civiltà antiche, anch’esse rurali e non dissimili da quelle sparute che ancora oggi puoi osservare tutto intorno.
Camminammo là dove un tempo passavano le greggi rumorose, portatrici di latte e nutrimento, la dove gli elfi, sul finire del giorno, danzavano con le coccinelle dai colori sgargianti. In quell’aria sospesa anche i Pierrot si erano dati convegno: vestiti intonsi, ricamati di sette punti neri su un tessuto arancio, portato fin lassù da sedici gechi dai piedi palmati. Danzavano, seducevano, cantavano come nel più fragile dei circhi.
Lo spettacolo era appena cominciato.
Camminammo ancora, mentre le ombre lunghe della sera arrivavano a lambire l’orizzonte. Un vecchio pastore ripeteva a memoria i nomi delle pecore, mettendo l’accento su quelle scomparse. Ad un tratto, anche le pietre cominciarono a parlare in un dialetto vecchio, che entrava fin dentro le stanze della memoria delle lingue. Così potevi udire parole arcaiche, come frasca, petra, juorn, vient, portate alle orecchie da un alito di vento generato dalle credenze popolari.
In lontananza, un albero storto si stagliava come un dio, i suoi rami nodosi indicavano direzioni che nessuna bussola può sapere. Ai suoi piedi, una ciotola di rame riempita di pioggia e di stelle: l’acqua tremava come tremano le mani di chi conosce troppe cose.
Incrociammo una donna, che se ne stava seduta sul limitare di un muretto a secco. Non parlò, ma aveva gli occhi di chi aveva visto l’inizio del mondo. Tutto intorno a lei una danza di galli cedroni che portavano sulle ali campanacci muti.
Ci porse un frutto di sorbo, e quando lo spezzammo in due, ne uscì una farfalla nera, che si posò sulla fronte di ognuno.
“È il sigillo”, disse una voce che non sapevamo da dove provenisse. “Da ora ne siete i custodi”.
Il cielo si abbassò fino a sfiorare le nostre ciglia. Un lampo lontano illuminò per un attimo le rovine di un paese senza nome, aggrappato alla costa di un monte come un ricordo che non vuole morire. Una lapide diceva: Qui si fabbricava il silenzio.
