Oggi, 45 anni fa, l’evento che cambiò per sempre le nostre vite: il terremoto dell’Irpinia.
Vi lascio il pezzo che ho scritto per il Corriere dell’Irpinia un paio di settimane fa.
Il terremoto
Io sono Giuseppe Tecce, e il giorno del terremoto del 1980 me lo ricordo bene. Ero piccolo, meno che un adolescente. Eravamo stati tutto il giorno a casa dei nonni, a Paternopoli. Nonno Peppe aveva una casa bassa, che andava in profondità con le sue cantine, che dava sulla piazza principale del paese. Era proprio su quella piazza che ero stato durante il pomeriggio, giocando a pallone e godendomi il sole che, stranamente, aveva riempito una giornata di autunno inoltrato. Una giornata insolita sull’Appennino, dove già si sarebbe dovuto respirare l’aria dell’inverno, e dove ci si sarebbe aspettato di vedere tante nuvole e pioggia. E invece no, il clima aveva deciso diversamente, regalandoci una giornata quasi estiva. Ma fu la sera che, rientrato in casa, feci ritardare la partenza, spinto da mio nonno a restare per la cena, preparando salsicce e patate da cuocere sotto la cenere. Non si poteva dire di no a quelle prelibatezze del luogo, e così fu che ci ritrovammo tutti in casa alle 19.34 di quel fatidico 23 novembre 1980, una data che per tutti è diventata uno spartiacque tra un prima e un dopo. La terra tremò, con movimenti che ci sbattevano in tutte le direzioni. La fuga verso l’esterno, attraversando il lungo corridoio, sembrava non finire mai. Era piena di insidie, di mobili che cadevano, di vetri che si frantumavano. L’aria era satura di paure e destini di migliaia di uomini e bestie, che cambiavano per sempre. Io fuori da quella porta ci arrivai. La casa resse, seppur danneggiata, dandoci l’opportunità di arrivare fuori. Ero provato ma salvo.
Io ero Antonio Pecora, capitano e comandante della stazione dei carabinieri di Sant’Angelo dei Lombardi. Il giorno del terremoto ero in servizio, perché per un carabiniere non esistono né domeniche, né giorni comandati. La patria la si serve ogni giorno, anche quando non si sa che sarà l’ultimo.
Quella giornata, l’avevo trascorsa insieme al mio collega, l’appuntato Benito De Gennaro, svolgendo compiti esterni. D’altronde la giornata era così bella e tiepida che sarebbe stato uno spreco rinchiudersi in caserma. Era la classica giornata in cui all’interno delle mura faceva addirittura più freddo che fuori. C’era stata una lite che aveva coinvolto una famiglia di contadini fuori Sant’Angelo. Una di quelle liti che potevano insorgere per motivi familiari, legate a fatti di confini e di eredità. Figli che non si accordavano su un lascito terriero e nemmeno sui confini. Avevamo trascorso gran parte del nostro tempo lì, cercando, con la nostra flemma, di farli ragionare e di evitare che un semplice litigio potesse trascendere in qualcosa di peggiore. Qualcuno all’interno della casa aveva persino brandito un coltello e la moglie di uno di loro, si era premurata di chiamare i carabinieri. Arrivammo sul posto pieni dell’orgoglio che la nostra divisa ci trasmetteva, intenzionati a risolvere bonariamente la faccenda. Conoscevamo alcuni componenti di quella famiglia e sapevano che, in fondo, erano brave persone. Di sicuro, a qualcuno era partita la brocca, dopo aver alzato un po’ il gomito.
Mi ricordo il sole che rimbalzava sui terreni e sulle piante circostanti. Pensai a quanto fosse bello il creato, con tutti quei colori, la luce del sole e gli animali che ci tenevano compagnia giorno e notte. L’aria della campagna ci riempiva i polmoni, e non potei non soffermarmi su quanto fossi fortunato a svolgere il mio servizio in una terra così antica e bella. Tornammo in caserma che era già buio. Per le scale incrociammo Filomena, la signora che veniva a darci una mano per le pulizie. Si era anticipata alla domenica pomeriggio, perché il giorno dopo avrebbe avuto una visita medica in ospedale. Ci rinchiudemmo nella mia stanza, per redigere il verbale di quanto accaduto in quel pomeriggio. Alzai gli occhi verso il grande orologio che tenevo appeso alla parete, proprio sopra ai gagliardetti dell’arma. Mancava poco alle 19.35. Mi fermai a guardarlo per un istante. Non lo sapevo, ma quello era l’ultimo secondo che avrei contato.
Un respiro dopo, la luce si spense.
Ci fu un rumore profondo, come se qualcuno avesse tirato una corda sotto la terra. I muri cominciarono a muoversi, a piegarsi, a gemere. Il pavimento si sbriciolava, l’aria si riempiva di polvere e di urla. Provai a chiamare Benito, ma la voce mi restò in gola. Poi tutto fu silenzio.
Da allora non ho più sentito il peso del corpo, né la fatica dei giorni. Solo il ricordo che continua, come un’eco sepolta nelle pietre. Ogni anno, quando la terra si muove ancora, io passo di lì. Passo tra le macerie che non ci sono più, accarezzo i nomi sulle lapidi, ascolto le voci che salgono dalle cantine, dalle case, dalle piazze.
Il mio paese è rimasto sopra di me, ma io lo veglio ancora, come quella notte, alle 19 e 34.
Io ero Davide Sorrentino, avevo venticinque anni e vivevo a Conza. Sì proprio in quella parte che oggi chiamate Conza Vecchia. Nel 1980, quella era la nostra terra. Vivevo in una casa antica, fatta di pietre, costruita da un nostro antenato. “È una casa che può resistere a tutto”, diceva papà. Ha resistito a due terremoti e forse anche più, perché non sappiamo di preciso quando fu costruita la casa. Per me era come un castello, fatto di pietra e di odori familiari. Mamma di domenica preparava sempre il ragù, quello con la pancetta d’agnello, ripiena di uova, aglio e prezzemolo, e cucita sul davanti. Come mi piaceva il ragù di mamma e non sprecavo un’occasione per assaggiarlo in anteprima con un tozzo di pane. Con più precisione tagliavo il culo del pale e lo intingevo direttamente nel pentolone dove il ragù cuoceva almeno dalle sei del mattino. Quel giorno avevamo pranzato tutti insieme. Io ero felicissimo, perché per la prima volta avevo portato la mia fidanzata a casa. Teresa si chiamava e con orgoglio la presentai prima a papà e poi a mamma e poi anche ai miei due fratelli. Teresa era emozionata e si fece rossa in viso, ma fu papà a sdrammatizzare il momento con una battuta che la mise a suo agio. Mamma era più emozionata di Teresa e non smetteva di toccarsi i capelli e di mettere in ordine la casa. Eravamo una famiglia povera, ma dai buoni principi morali. Eravamo una famiglia di contadini. Avevamo degli appezzamenti di terra fuori dal paese e lì trascorrevamo le nostre giornate, coltivando tutto ciò che ci serviva. Avevamo anche tre pecore, che si lasciavano avvicinare solo da me. Io le mungevo e con il latte sapevo fare un formaggio da leccarsi i baffi. Come ero felice quel giorno. Avevo avuto l’approvazione da mamma e papà. Da quel giorno potevano dirci veramente fidanzati, perché la sua famiglia già ci aveva benedetto qualche giorno prima. Fu un pranzo lungo, pieno di chiacchiere, di vino, di risate. Mangiamo tanto e dopo il pranzo mi stesi un po’ sul divano. Teresa parlava con mamma. Si era fatto tardi, credo fossero le sette e mezza o poco più. La terra tremò in un gran frastuono di tuono. La terra tremò e quelle pietre si sgretolarono. In poco più di un minuto ci cadde tutto addosso. Conza vecchia non esisteva più e noi eravamo tutti morti.
