Alushta

Ad Alushta ho mangiato un salmone sulla Lenina, arrostito mentre osservavo i colombi beccheggiare come sostenitori dell’ultimo arrivato. Donne fasciate in abiti di pizzo rosa o dai colori sgargianti passeggiavano sulla Naberiezhna, reggendo in mano rose dal gambo lungo, insinuando le dita sottili tra le fila di spine, sparse a casaccio sullo stelo vitreo. Una gatta amoreggiava con un cane, mentre l’uomo dalla lunga barba, suonava, da seduto, un violino ebreo, con ritmi sefarditi, muovendo il piede a tempo con la posizione delle mani, che scorrevano fluide tra la parte alta e quella bassa della tastiera. Io camminavo come un pavone dalla ruota aperta, sognando di calpestare le stesse pietre che videro Pushkin passeggiare con il vento che gli spettinava i ricci. Immaginavo l’eco della sua voce che rimbombava nelle gole del granito dei palazzi in stile liberty.  Immaginavo Čechov che mi osservava dalla scorza ombrosa di un gelsomino, quando con la penna tracciava i destini di uomini dagli abiti scuri, che tessevano addii sulla sabbia della Golubaya Volna. Vedevo nitido Tolstoj passare, alto e severo, scalzo sui ciottoli della spiaggia, come un profeta, saggio e colto, che osservava come i vitini stretti sorreggevano donne, che giocavano rincorrendo i gabbiani. Sulle scale bianche di Livadija, appuntavo i sogni del mio destino nei taccuini fatti con le ultime foglie dell’estate. Ed io forestiero in cerca di gloria, suonavo le ultime sinfonie delle memorie, anelando di essere reso partecipe alla festa delle anime, dove i salmoni risalivano vivi le correnti d’acqua, senza più freddarsi in piatti di rose, stanche di bellezza.

Pubblicato da Giuseppe Tecce

Scrittore di saggi e romanzi

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