Quante strade portano a Nusco, tutte diverse, ma tutte contorte allo stesso modo. Che si provenga da est o da ovest, bisogna arrampicarsi su per la collina, attraverso strade che sembrano serpenti sinuosi e sfuggenti.
Ettore, quelle strade, le percorreva ogni mattina, per aprire la bottega di famiglia, che si tramandava da generazioni. Ettore era il chianchiere di Nusco, anche se a Nusco non ci viveva più. Con più precisione Ettore viveva durante il giorno nella sua bottega, mentre di sera tornava a dormire nella casa che aveva acquisito con il matrimonio. Ettore aveva sposato Teresina, la figlia del barbiere di Teora, e proprio a Teora, nella piazza centrale aveva la sua casa, grande, ampia, luminosa, con lunghi balconi sovrastati da archi sorretti da colonne. La sua abitazione vista dall’esterno sembrava un palazzo di signorotti medievali, con richiami in pietra e grandi finestre dall’aspetto sinistro e gotico. Sul balcone lui ci stava d’estate, quando, di sera, tornato dal lavoro, si levava di dosso il fetore del sangue raffermo e sul balcone sorseggiava vini di ogni terra, sognando viaggi in lande lontane, dove lo aspettavano donne docili e sorridenti, dall’aspetto morbido e tondeggiante, come le donne di Botero. Ad Ettore la carne piaceva assai, soprattutto quella che stava addosso alle donne, che le forme gliele facevano immaginare fertili e propense ad essere amate. E quella carne proprio non se la toglieva dalla testa. Immaginava di sezionarne un pezzo, che so, magari un pezzo della pancia. Immaginava di inciderlo con un coltellaccio da macellaio, o con un bisturi, ed immaginava di osservarne gli strati di pelle, ben attaccati tra loro, che ricoprivano uno spesso strato di lardo. Il lardo, se lo immaginava bianco, candido come la neve, e nulla aveva a che fare con le miserie di un corpo umano. Sia ben inteso che quelle erano solo fantasie, malate se vogliamo, ma pur sempre fantasie erotiche provenienti dalla mente di una persona, che mai e poi mai, avrebbe fatto male ad alcuno, e men che meno ad una donna. Lui, Teresina non l’aveva mai tradita fisicamente, ma solo nella fantasia, con quelle donne rubiconde e spensierate, che non gli comportavano nessun impegno né dispendio di energie. Ettore di energie non ne aveva tante e non voleva spenderle, di certo, invano. Le poche che possedeva, se le voleva conservare per vivere una vita serena, almeno fino a novant’anni. Aveva calcolato, infatti, che spendendo il minor numero possibile di energie ogni giorno, avrebbe accumulato un surplus energetico, che, secondo alcuni suoi complessi calcoli, gli avrebbero permesso di superare agevolmente i novanta anni.
Ettore era un uomo saggio e previdente. All’epoca dei fatti, di anni, ne aveva già cinquantaquattro, ma, nonostante ciò, si era premurato di programmare il suo futuro più prossimo e quello più remoto. Lui e Teresina non avevano figli, e la cosa cominciava a pesargli. Aveva quattro nipoti e sperava che almeno uno di loro, figli di suoi fratelli, potesse portare avanti la tradizione di famiglia, assumendo le redini di quell’attività che si svolgeva senza soluzione di continuità da alcuni secoli. D’altra parte quale altro modo esisteva per poter sfidare il tempo ed i secoli, se non quello di tramandare un’identica attività di generazione in generazione a esseri umani della stessa discendenza genetica?
Quel nipote, Antonio, l’unico che sembrava avere una predisposizione per l’attività di chianchiere, se lo portava sempre in bottega. Antonio viveva a Torella dei Lombardi e a Nusco ci arrivava per altre vie. Gli piaceva attraversare i fitti boschi che crescevano rigogliosi proprio sul fondo della valle, alla quale si accedeva dalla stretta via che passava davanti al cimitero. Il bosco, poi, si inerpicava sulla collina di fronte e ricopriva con vegetazione fitta tutte le colline a seguire, fino ad arrivare poco sotto Nusco. Il bosco era cosi fitto che durante le estati, Antonio, di tanto in tanto si fermava sotto quelle fronde, in cerca di frescura e di ossigeno. Antonio, di anni ne aveva venticinque, all’epoca dei fatti. Era un ragazzo forte, robusto il giusto per essere adatto ad un lavoro che lo costringeva a restare in piedi per tutto il giorno. Aveva le scocche rosse su guance paffute, ricoperte di una peluria sottile e rada. Non aveva il volto da barba e nessuno, nella sua famiglia, aveva mai osato farsela crescere. “La barba è per i Signori”, diceva il padre, “e noi Signori non siamo. La povera gente come noi, non ha tempo per pensare a certi vezzi o a spendere soldi per curare quei peli sulla faccia. Noi siamo fatti per lavorare sodo, sotto al sole e per sudare. La nostra faccia deve essere pulita, per darci onore e dignità, perché richiede meno cure ed è più facilmente lavabile”. Ma Antonio, ai discorsi del padre, non ci faceva nemmeno più caso. Era, ai suoi occhi, il solito vecchio brontolone, anche se vecchio non lo era per davvero.
Ettore aveva il vezzo di indossare sempre un camice immacolato, ed ogni mattina ne indossava uno pulito ed inamidato. Il servizio della pulizia e della stiratura con amido era compito di Teresina, che lo faceva con amore e dedizione. D’altra parte, Teresina non aveva figli e tutte le sue attenzioni erano rivolte al marito, o almeno così pensavano i ben pensanti, che vedevano dall’esterno la fotografia della famiglia perfetta, con il marito dedito al lavoro e la moglie tutta casa e chiesa, dedita ai lavori domestici. Timorata di Dio, Teresina, per carità. Andava in Chiesa tutti i giorni e certi giorni lo faceva anche più volte al giorno. Andava in Chiesa, si inginocchiava, pregava e si batteva il petto, proprio sopra a quel cuore, che, ogni tanto, batteva per chi non proprio doveva battere.
Anche quella mattina Ettore, indossò il camice pulito, bianco immacolato e si incamminò per la via di Nusco. Con la sua piccola autovettura, attraversò Teora, poi Lioni, prendendo, infine il solito svincolo che lo avrebbe portato sopra Nusco. E a Nusco ci arrivò in poco tempo, perso, come sempre nei suoi pensieri, con lo sguardo smarrito nei rami degli alberi che costeggiavano, verdi e rigogliosi, la via.
La bottega era nella strada principale che dalla piazza centrale, portava alla piazza più piccola sopra al paese. Una sorta di corridoio elegante della cittadina, lungo la quale si praticava il consueto struscio serale, soprattutto nei fine settimana, quando le donne, in particolare quelle in età da marito, imbellettate alla buona e meglio passeggiavano avanti e indietro, con stivali alla moda indossati sopra pantaloni attillati e corpetti stretti e corti che non lasciavano nulla all’immaginazione. Antonio, che giovane lo era ancora, e che di ormone ne aveva da vendere era solito sostare, nel tardo pomeriggio proprio sull’uscio del locale, osservando con attenzione tutte le ragazze che lì davanti passavano, gettando occhiate più o meno maliziose.
“Entra dentro”, diceva Ettore, che di guai in giro già ne vedeva troppi e che pretendeva che il nipote si occupasse solo del negozio di famiglia, con poche distrazioni e nessuna frequentazione. Temeva, che, se il nipote avesse trovato una donna, avrebbe mandato all’aria tutti i buoni propositi di cui lo aveva caricato, lasciandolo, magari, di nuovo solo a portare avanti la chiachieria, e senza alcuna prospettiva di futuro.
Ma chiedo al lettore, ora, di non divagarsi in altre argomentazioni e di concentrarsi su quanto avvenne quella mattina. Ettore, aperta la bottega come ogni mattina, dopo essersi fatto il segno della croce, che sempre segnava l’inizio della giornata lavorativa, si stirò il camice bianco, tirandolo verso il basso, con lo scopo di eliminare quelle fastidiose grinze che, in genere, si formavano quando restava seduto in auto per raggiungere Nusco. Subito dopo, con un gesto meccanico, automatico, si infilò le mani in tasca, voltandosi per entrare nel locale retrostante la bottega, quello in cui si conservavano le carcasse da sfasciare, prima di poterle esporre in vetrina. Nella tasca destra, però, qualcosa attirò la sua attenzione. Al tatto, sentì qualcosa, che prese tra due dita, il pollice e l’indice, che cominciarono, d’istinto a roteare, appallottolando quel qualcosa che restava ancora misteriosamente in tasca.
La sensazione tattile era strana, come se stesse toccando dei fili di sottile seta, che avevano anche difficoltà ad appallottolarsi. Sempre senza pensarci, estrasse la mano dalla tasca, portando le due dita davanti agli occhi. Quello che vide lo lasciò senza parole: erano dei peli, aggrovigliati in una piccola matassa irta e setosa. Ma la cosa più strana, fu che i peli che aveva in mano non erano peli qualsiasi, ma, erano con ogni evidenza, peli pubici. La cosa lo lasciò molto perplesso: perché mai dei peli, che con ogni evidenza, erano appartenuti ad un pube, erano finiti nella sua tasca?
La cosa diventava più misteriosa, soprattutto se si considerava il fatto concreto che Ettore di peli, addosso, non ne aveva. Infatti era solito ripulirsi di tutto, perché nel mestiere che faceva era facile contaminare il cibo con qualche pelo, e, per questo motivo, onde evitare problemi di ogni sorta, aveva preso la sana abitudine di togliere tutti i peli che crescevano sul suo corpo. E lo faceva con una cura maniacale, e con una cadenza precisa: ogni dieci giorni, non appena i peli cominciavano a fare capolino da sotto all’epidermide, ecco che si metteva all’opera e, con pazienza certosina, eliminava dalla propria pelle ogni forma di peluria, proprio come si fa con i peli del maiale dopo l’ora della sua festa. Ovviamente si faceva aiutare da Teresina, per giungere nei posti più irraggiungibili, come, ad esempio, dietro la schiena o sulle natiche. E Teresina, faceva anche quello, mostrando amore e dedizione, ripulendolo di ogni singolo pelo che crescesse sulla sua pelle. D’altra parte lo faceva anche per se stessa, perché tutelava, in quel modo, il lavoro del marito, che attraverso i guadagni del suo lavoro, le permetteva di fare una vita, tutto sommato, agiata e serena. Teresina lo faceva con dedizione, ma senza passione alcuna. Nemmeno quando vedeva il corpo denudato del marito, ormai, si lasciava prendere da brividi passionali. “Marito mio”, diceva, “siamo vecchi per certe cose, e le passioni giovanili son ben lontane dal nostro essere. Ora l’unica cosa che ci resta è pensare alla nostra salute e prepararci al meglio per la vecchiaia”.
Ettore, però, rimase immobile, con la matassa di peli pubici tra le dita, il cuore che batteva all’impazzata. La mente, che fino a quel momento aveva fluttuato tra i pensieri quotidiani della bottega e le forme generose delle donne di Botero, ora si accendeva di sospetto. Non disse nulla a Teresina quella sera, limitandosi ad osservarla con uno sguardo più curioso del solito, quasi come se la vedesse per la prima volta. La moglie, ignara della tempesta che si agitava nell’animo del marito, continuò le sue abitudini quotidiane con un fervore che a Ettore sembrava improvvisamente sospetto. Sempre in chiesa, sempre assorta in preghiera, sempre così devota. Troppo devota. Ettore decise di non dirle nulla, ma di investigare con astuzia, servendosi di piccoli stratagemmi. Cominciò col rientrare all’improvviso a casa in orari improbabili, fingendo di aver dimenticato qualcosa. Altre volte, la sera, diceva di essere stanco e si ritirava prima, per poi alzarsi di soppiatto e appostarsi dietro la finestra. Notò che Teresina non mancava mai di recarsi in chiesa, ma c’era qualcosa nei suoi movimenti, nella rapidità con cui attraversava la strada, che lo rendeva ancora più inquieto e sospettoso. Non sembrava la camminata di una moglie devota, ma quella di un’adultera prudente.
La faccenda si faceva seria e doveva andare fino in fondo, per scoprire cosa si nascondesse dietro quel comportamento maldestro di Teresina. Decise di sacrificare la bottega e di affidarla a suo nipote Antonio. Il ragazzo, forte e paffuto, si sentì investito di una responsabilità che accolse con entusiasmo, ma che gestì con la leggerezza tipica dei suoi venticinque anni. Un giorno, mentre Ettore si appostava tra le ombre della piazza di Teora per osservare i movimenti della moglie, Antonio si fece sorprendere in bottega da Concetta, una giovane vedova di Nusco, famosa per il suo carattere focoso e la sua incontenibile voglia di compagnia. La donna si avvicinò al bancone e iniziò a trattare il prezzo della carne con una serie di moine che resero Antonio rosso come un pomodoro. Lui, impacciato, le offrì uno sconto generoso, ma si trovò ben presto con le mani tra le sue forme prosperose, mentre lei rideva di gusto. Il tutto sotto gli occhi di mezza Nusco, che il giorno dopo già raccontava l’episodio con dovizia di dettagli piccanti.
Ma torniamo a Ettore. Dopo settimane di sospetti e appostamenti, la conferma arrivò in una mattina di sole pallido. Si era nascosto dietro il grosso gelso che fiancheggiava la sua casa, con il cuore che si agitava in petto come una bestia feroce. Poi lo vide. Il parroco, Don Carmine, usciva furtivamente dalla sua abitazione. La veste era un po’ sgualcita, il passo frettoloso, e con un gesto rapido si asciugava la fronte sudata. Ettore rimase pietrificato. Il sangue gli salì alla testa, la rabbia gli chiuse la gola, ma si trattenne. Non disse nulla, tornò alla bottega con il volto impassibile e si immerse nel lavoro, ma dentro di sé la fiamma della vendetta già bruciava.
Per giorni osservò Teresina con uno sguardo glaciale, ma senza affrontarla. La lasciò agire, le permise di continuare nel suo gioco sacrilego, fino a quando non decise che era giunto il momento di colpire. Un’altra mattina, ancora più limpida della precedente, Ettore fece finta di uscire per andare in bottega, ma si appostò dietro casa, sperando di sorprendere gli amanti nel pieno della loro tresca. Così gli successe di vedere Don Carmine varcare la soglia della sua abitazione, con la solita furtività e attese, stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche. Dopo qualche minuto, spalancò la porta con un calcio. La scena che gli si presentò davanti, fu degna di un racconto boccaccesco. Don Carmine, con la tonaca ormai abbandonata su una sedia, si accingeva a impartire una benedizione molto particolare alla sua Teresina. Lei, con le mani giunte e gli occhi chiusi, sembrava in estatica attesa di una grazia divina, che, di certo, non sarebbe provenuta dal cielo. Ettore si fece avanti con un ruggito che fece tremare i vetri:
“E brava la mia santarella! Manco San Gennaro c’ha ‘sto miracolo!”
Don Carmine, colto in flagrante, si affrettò a raccattare la tonaca, ma nell’agitazione gli si impigliò tra le gambe, facendolo rovinare a terra come un sacco di farina. Teresina, con un grido soffocato, tentò di ricomporsi, ma il marito non le diede tregua:
“E dicimi, ‘sta benedizione te la fai fare sempre a gambe aperte?”
Il parroco riuscì a rimettersi in piedi e, con il volto paonazzo e il sudore che gli colava lungo le tempie, si precipitò verso la porta, inciampando un’altra volta nello zerbino. Uscì in strada, con la tonaca ancora semiaperta, mentre Ettore rideva come un forsennato. Teresina, livida, si rannicchiò su una sedia, incapace di sostenere lo sguardo del marito. Ettore, ora padrone della scena, le si avvicinò, poggiando le mani sui fianchi.
“Non dirai nulla?” balbettò lei.
Ettore sospirò, poi si avvicinò alla finestra e si accese un sigaro. Dopo un lungo tiro, esalò il fumo e rispose:
“No, Teresì. Ma da oggi, invece di andà a messa, ti metti a lavà i camici. E questa volta, senza lasciarci dentro le prove del peccato.”
Così dicendo, uscì di casa con la dignità di un uomo che, sebbene tradito, aveva avuto la sua vendetta. E alla bottega, raccontando la storia ad Antonio, rise ancora più forte, mentre il giovane nipote cercava di spiegare alla vedova Concetta che quel giorno, purtroppo, la carne era finita.
(Inedito tratto da “I racconti dell’Irpinia”, di Giuseppe Tecce)
