Tecce si fa cantore del tempo sospeso, luogo in cui l’uomo abita non secondo la freccia lineare della cronologia, ma secondo le circolarità interiori della memoria, del desiderio e del mito. I suoi personaggi non vivono in un tempo storico, ma in una dimensione dell’essere che sfugge alla contingenza: sono ombre incarnate, forme archetipiche, frammenti d’infinito che abitano il limite. Il loro spazio non è geografico, ma ontologico. L’Irpinia, allora, non è solo paesaggio: è simbolo, è metafora del ritorno, del radicamento, dell’origine che ci fonda e ci sfugge.
L’autore intreccia ironia e nostalgia, incanto e concretezza, in una narrazione che si pone come atto conoscitivo, un modo per interrogare la realtà senza la pretesa di definirla, ma con il desiderio di abitarla poeticamente. Come i filosofi presocratici, Tecce guarda il mondo con stupore primordiale: ogni storia è una piccola cosmogonia, una visione dell’Essere incarnata in una voce, un gesto, un silenzio. (Dalla recensione di Rosa Bianco su Orticalab)
