Quando si muore

Quando si muore, non si muore per davvero. Si spalancano porte che attraversano veli dimensionali che ci portano oltre il visibile, laddove gli occhi non osano guardare e dove i cuori sanno di dover cercare. 

Quando si muore, non si ha paura di morire, perché l’anima si ricorda dei giardini che aveva perduto, dei sentieri azzurri che Omero aveva intravisto oltre le colonne d’Ercole,

e che Dante, cieco d’amore, aveva percorso scalzo.

Quando si muore, si sente il fruscio delle pagine mai voltate, lo scorrere della penna su fogli di libri mai scritti, le parole sospese tra Esiodo e Whitman, il respiro regale di tutte le stelle che mai si accesero, e l’eco delle cattedrali d’aria che Rilke sognò senza poterle mai toccare.

Si va là dove i pittori stendono cieli impossibili, dove Turner lasció esplodere i suoi tramonti senza pennelli, e dove Van Gogh rideva, seminando girasoli su cieli scuri accesi di galassie colorate.

Si cammina senza gravità sulle strade costruite da Virgilio per le anime gentili, si riconoscono i sassi parlanti di Antonia Pozzi, e si dialoga coi sogni infranti di Novalis, mentre il tempo, smesso il suo abito regale, si fa fanciullo e gioca tra i nostri capelli.

Quando si muore, si diventa la memoria che aleggia nelle stanze,

la carezza che non ha più bisogno di mani, la nota persa che Debussy inseguì senza mai afferrare.

Si varca un giardino senza recinzioni,

dove il sole non sorge né tramonta,

e dove ogni creatura  è chiamata per nome, come in una nuova Genesi.

E allora si che si capisce che la morte non è una fine, ma un ritorno alle origini, un tuffo oltre l’ultima curva del pensiero, dove anche Dio, smarrito,

ci aspetta sotto un albero di melograni.

Pubblicato da Giuseppe Tecce

Scrittore di saggi e romanzi

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