La neve di Mosca

Ero a Mosca già da un po di giorni. Credo di essere arrivato intorno al 29 di dicembre, carico di vestiti pesanti. Avevo sentito parlare, ed avevo letto tanto, dell’inverno russo, ma non lo avevo mai toccato con mano prima di allora. Nonostante ciò il mio abbigliamento ordinario era piuttosto inadatto al clima ed era costituito, solitamente, da un paio di jeans indossati sopra ad una calzamaglia, un maglione indossato sopra ad una camicia, un giubbotto tipo moncler, che arrivava poco sopra alle ginocchia e ai piedi un paio di Timberland, quelle a collo alto. Nei primi giorni sembrava che fossi stato catapultato in un mondo da fiaba: il freddo, la neve, le bevande calde, la vodka. Tutto sembrava maledettamente romantico. 

La prima cosa che feci, pochi giorni dopo il mio arrivo, fu comperare un termometro da esterno, uno di quelli dotati di una ventosa, che utilizzai per attaccare alla parte esterna della finestra. Passavo le ore a guardare quel termometro, sospeso alla finestra che dava sull’incrocio tra Molodogvardeskaya e Yartsevskaya ulitsa. 

Dalla stanza accanto sentivo ogni tanto dei rumori. Era Zoia, la nostra coinquilina, che dalla sua stanza strisciava verso la cucina o verso il bagno, stanze comuni, poste in fondo al corridoio. In quell’epoca Zoia era già vecchia. Era una donna sdentata, dall’aspetto burbero, dall’animo litigioso, che alzava spesso il gomito. La vedevo ogni tanto in cucina pasticciare con la farina, le patate e poco altro. Credo preparasse pelmeni, una sorta di ravioli ripieni di patate schiacciate e cipolle. Poi la vedevo aggirarsi per il corridoio come un fantasma, brontolando parole incomprensibili. 

Ma torniamo al termometro: passavo le ore a guardarlo. Credo che fosse il mio passatempo preferito a quel tempo, insieme alle canzoni di Celentano e Mina che spopolavano sulle radio russe. La mattina appena sveglio andavo a controllarlo; dava una temperatura più o meno costante, che si attestava intorno ai meno trenta gradi. Durante le brevi giornate, la temperatura saliva un po’, con delle massime che potevano raggiungere anche i meno sedici, ma in genere erano più basse. Nonostante ciò in casa si stava benissimo. Le abitazioni erano costruite con tecniche tali da poter resistere al freddo estremo. I termosifoni erano sempre bollenti e non si potevano spegnere mai. Le uniche possibilità che si avevano per scampare al caldo fortissimo dell’interno, erano: restare in mutande e canottiera, come si fa al mare, nelle giornate più calde delle nostre estati, oppure aprire le due botole create nei doppi infissi della finestra, per far entrare finalmente aria fresca. Così si arrivava all’assurdo, che mentre fuori le temperature scendevano anche a meno trentacinque gradi, bisognava dormire con la finestrina aperta per sopportare il caldo allucinante all’interno. 

Durante il giorno il freddo si avvertiva di meno, perché si scendeva con Fatima, per fare servizi in giro, e quando si andava in giro si macinavano chilometri, e il freddo, come per magia scompariva. Però mi piaceva guardare il mondo dal vetro di quella finestra, e il mondo che mi appariva, era un mondo in fermento. La strada era sempre trafficata, la neve cadeva in continuazione. Gli spazzaneve non facevano in tempo a passare che nel giro di pochi minuti si depositavano altre decine di centimetri di neve. Le mamme non si lasciavano intimidire, né dal freddo, né dalla neve, e ne vedevo tante che, indossando tute da neve, portavano i propri bambini, anche neonati, avvolti in tute termiche, legati su slittini che trainavano con delle corde che tenevano legate strette in vita. Di sera, andavamo spesso da Nagoya, il ristorante giapponese vicino casa, dove ti servivano il sakè caldo che scaldava amina e corpo. Poi si tornava a casa cantando canzoni russe, delle quali storpiavo le parole. 

Credo che fosse pressappoco la metà di gennaio, quando una mattina, intorno alle 9, scendemmo di casa per andare al consolato italiano. Fatima doveva sbrigare delle pratiche burocratiche per ottenere il visto per l’ingresso in Italia. Come al solito indossai il consueto abbigliamento, la calzamaglia blu, il jeans, la camicia, il maglione di lana, le timberland, i capello di finta lana, la sciarpa ed uscimmo di casa. Dopo una ventina di minuti di metropolitana, arrivammo nei pressi del consolato, sito in una bella palazzina in stile liberty, sulle sponde del fiume Moskva, che, per l’occasione, era completamente ghiacciato. La temperatura si aggirava intorno ai meno venti e fummo costretti a metterci in fila all’esterno per poter accedere al consolato. C’era una coda ordinatissima di almeno 30 metri, con uomini e donne composti, ben attrezzati con pellicce, montoni, colbacchi e scalda mani in pelle di castoro. Mi misi in fila, rispettando le priorità di chi stava davanti. La fila scorreva molto lentamente, ed ero in coda già da almeno un’ora quando avvertii una strana sensazione. Dalla base dei piedi, uno strano calore cominciò a risalire verso l’alto, arrivando ai polpacci, a quadricipiti, alle anche, all’addome e poi ancora più su fino al torace. Una sensazione di strano calore che non avevo mai avvertito prima di allora e che mi mise in allarme. Avvertivo l’ansia che saliva di pari passo con quello strano calore, fino a quando non potendo più trattenerla mi misi a correre in direzione del consolato, inseguito da Fatima preoccupata per quell’insolita manifestazione. Scavalcata la fila, arrivato alla porta d’ingresso, mi misi a battere con le mani intorpidite dal freddo sul legno scuro, urlando, contemporaneamente, il bisogno di dover entrare: “Aprite, aprite, sono un italiano. Dovete farmi entrare, perché sono un italiano e sto morendo”. 

Due carabinieri che erano di guardia, si affrettarono ad aprire, trovandosi di fronte la scena di me che urlavo a squarciagola e che imploravo aiuto e Fatima dietro che non si era nemmeno scomposta più di tanto per l’accaduto. Ci fecero entrare immediatamente, e mi avvolsero in una di quelle coperte termiche che si vedono ogni tanto in televisione. Mi fecero accomodare in una bella sala, rivestita di legno scuro, portandomi una tazza di cioccolata calda e subito dopo una tazza di the caldo. Sentivo la vita che, lentamente, ritornava in me. Quello strano calore piano piano svaniva, mentre mi accomodavo al caldo tepore di una casa italiana nel cuore di Mosca. Intanto Fatima, approfittando dell’accaduto, salì al piano di sopra per espletare le pratiche necessarie per il visto. Uscito dal consolato ripiombai al freddo più assoluto e contrattai con un tassista abusivo, dei quali Mosca era piena, la cifra di 20 euro per farmi percorrere in macchina i duecento metri che ci separavano dall’imbocco della metropolitana. Scesi, gli diedi i venti euro, era contento. Io di più. 

Pubblicato da Giuseppe Tecce

Scrittore di saggi e romanzi

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