Ian Anderson a Zungoli

I passi sul sentiero della vita a volte sono morbidi e leggeri talvolta sono duri come pietre, o turbolenti come il fianco spoglio del monte, travolto da una frana. Bouree era nell’aria, Ian Anderson era attaccato al flauto traverso e me lo immaginavo con il ginocchio sollevato e con la gamba piegata verso il basso, fin quasi a toccarsi il polpaccio. Ero in auto sulla Napoli Bari, nel tratto tra Grottaminarda e Vallata, e dall’autoradio si spandevano, a palla, le gesta erotiche di immagini immaginate tra le musiche dei Jetro Tull, che risuonavano per le valli circostanti, risalendo lungo i crinali delle colline, fino a raggiungerne le sommità, sulle quali dormivano distesi, piccoli paesini che assomigliavano più a un presepe mesto che ai fasti del passato. Una stradina passava sotto al ponte alto dell’autostrada, tagliando come una lama sottile il terreno tra le colonne, come un filo di cotone che passava nella cruna di un ago, e risaliva lungo il costone della collina. Il sole, già basso delle quattro, di un dicembre freddo e piovoso, si rifletteva sull’asfalto della stradina, dileguandosi in mille cerchi arancioni, che sfumavano in tonalità calde, allargandosi attorno ad una macchia gialla al centro, che risaliva lungo tutto il corso della strada. Non c’era verso di evitarla, se non distogliendone lo sguardo, puntando gli occhi sui terreni arati circostanti. Riconobbi il paese in cui terminava quella striscia di asfalto. Era Zungoli, antico borgo irpino, oggi paese dì frontiera tra la Campania e la Puglia, un tempo via di comunicazione tra la via Appia e la via Traiana. Oggi la via Herculeia, che ottemperava proprio al suddetto compito, coincide esattamente con quella striscia di asfalto, che, ancora, mette in comunicazione l’Appia, che passa ad ovest, attraversando il Formicoso, con la Traiana, che taglia il percorso ad est, tirando dritto da Benevento fino Monopoli, passando dietro Ariano, tagliando in due Savignano e sfiorando Grieci.
Terre aspre e dure, terre cresciute in altezza e nemmeno più di tanto. Come panettoni afflosciati per metà, come lampi nel terreno, saette che attraversano gallerie, le terre d’altura sono state per secoli terre di pascolo e di caccia, luogo di incontro di mute di cani o falchi solitari, che al fischio concordato, tornavano al braccio del padrone, che restava guardingo sul cavallo. Federico II, da qui ci passava spesso. Era uno dei suoi terreni di caccia preferiti. Il promontorio che scorre alla mia destra è il Formicoso, altopiano brullo e ventoso, dove la caccia diventava arte venatoria, corso per la sopravvivenza, luogo in cui si incrociavano addestratori di cani e falconieri esperti. Il mite Federico, questa terra la percorreva in lungo e in largo, beandosi delle delizie della natura, riposando, infine, le sue membra stanche presso il castello di Bisaccia. Oggi, come allora, l’odore dell’origano selvatico, riempie le narici dei profumi delle terre a sud, delle terre di altura e di pascolo; terre abitate da pecore e cristiani, da lupi, tassi e scoiattoli. Terre brulle e amare, terre che o si odiano o si amano.

Pubblicato da Giuseppe Tecce

Scrittore di saggi e romanzi

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