Coltivo questo pezzo di mondo con alacre assiduità, perché il particolare è sempre parte del tutto, e il tutto entra in ogni particolare.
A Grottaminarda ho trovato una casa, del colore delle arance di Sicilia, con un cane e quattro gatti, e in quella casa mi sono sentito a casa. Ha un grande giardino con alberi di mele e fichi e ulivi tutt’intorno. Un’amaca e un dondolo, messi in primo piano, su uno sfondo fatto di terra e poesia. In cielo c’è la luna, piena e tonda, luminosa come non mai, che illumina un cielo d’agosto terso e caldo. Il canto delle cicale non smette mai, nemmeno quando dalle Pleiadi pezzi di stelle si staccano per cadere sul pianeta, lasciando scie luminescenti per palpitanti emozioni. Il cuore batte forte, scaldando corpi che non vogliono cedere all’inedia della sera. L’indolenza delle anime si scontra presto con la verità del luogo. Generazioni sapienti di contadini maturi hanno coltivano per secoli quei terreni, ricavandone frutti e nutrimento. Zampe di vacche podoliche e pingui maiali hanno calpestato quelle terre, dove ora giace inerme, riversa in terra, un’unica foglia di fico, intrisa degli umori corporali e seminata come si fa con il grano. Non è il tempo dell’autunno, quando le foglie cadono come gocce di pianto dai crinali obliqui dei rami protetti. Non è ancora il tempo delle cadute, ma la foglia verde giace in terra, stemperando nei minerali del terreno gli ultimi suoi istanti di vita. Chiaramente è stata strappata via, chiaramente è stata messa lì, a ridosso dell’amaca, dove il cane amico, gioca scodinzolando a nuovi padroni. Il grillo abbassa la testa al mio passaggio, poi la rialza sistemandosi il cilindro. La mia capigliatura sciatta e rada nulla ha da spartire con la chioma lunga e profumata della padrona della casa. Ma nonostante il diverso, porto con orgoglio il trilby che nasconde le cicatrici del mio capo, e rassegnato mi preparo per il viaggio notturno nel cuore dell’Irpinia.
Le rane non hanno ancora smesso di gracidare, piccole luci sparse lungo il sentiero indicano la direzione che porta all’acqua. Il cane dalla coda dondolante, flemmatico mi scruta: ha una bianca peluria ed il passo di un pastore. Lei, invece, è ancora distesa sull’amaca, sazia di ogni sentimento, satolla fino all’orlo, satura di sudore e di ispirazione. Ha lunghi capelli neri, sciolti sulle spalle, mentre sorseggia una Peroni, guarda sorridendo la scena del cane che imbratta il nuovo padrone. Lo osserva divertita, poi dice di essere impaziente, che da donna ha terminato il tempo dell’attesa, che se non otterrà il tutto e subito, mollerà le redini e lascerà cadere la storia nell’oblio. Ma tu giovane donna non sai che la fretta porta sempre cattivi consigli e che la prima legge della vita è quella che ci impone di essere grati per quello che si ha. La gratitudine è il sentimento che ci riappacifica con la vita, la gratitudine apre le porte dell’invisibile, permettendoci di entrare in una dimensione che depone l’onirico in favore dell’essenza. Lei è giovane, lui non lo è più. Lei è governata dagli ormoni, lui da un senso di riappacificazione con il mondo. Lui le prende la testa tra le mani: “tesoro mio, abbi fede, tutto si sistemerà. Dai il tempo al tempo di fare il suo lavoro, sii orgogliosa delle mie vittorie, così come io lo sono delle tue. Gioisci per ogni nostro incontro, come il giubilo per il giorno di festa, come il giubileo delle anime che si incontrano per sempre, come l’incrocio dei corpi che si danno piacere. Tu ancora non lo sai, ma stiamo facendo la storia, presi dentro a un vortice di bellezza senza confini, dove tu sei la protagonista indiscussa. Dalle tue labbra pendono i battiti d’ali delle farfalle, dalla tua bocca possono sorgere fonti incontaminate di acque argentate. Ma se tu molli ora, prima ancora di averci provato, prima ancora di cominciare il percorso, se tu molli ora, avrai per sempre il rimorso ed un peso all’addome, che mal si addice ad una giovane donna, dal portamento delicato”. Così dicevano i due, dimentichi, quasi, della missione che dovevano portare a compimento quella notte, quale pegno del loro amore, quale sigillo chiuso sopra a un mondo impenetrabile agli altri, invisibile ai più. “Questa sera è una promessa, che scomparirà nel nulla se uno dei due smette di provarci. Sii costante, come lo sei in tutto ciò che fai, abbi la pazienza che hanno i forti, e mantieni sempre il sorriso che apre le porte e i cuori”. Ora è tempo di andare, la nostra eterna promessa, passa da un cammino che vale come luminosa promessa nel cammino buio che ci accingiamo a percorrere. A mezzanotte in punto, si parte”.
Viaggiare di notte assume un gusto particolare: una sorta di salto nel tempo, come quando da bambini non riuscivamo a cogliere i dettagli del paesaggio. Alle undici e quaranta lei si alza con indolenza dall’amaca che rimane dondolante. Lui ha già preparato uno zaino, con frutta, acqua e qualcosa da mangiare. Lei resta ancora vicina all’amaca, non vuole distaccarsene, non vuole cominciare il cammino. Si stropiccia gli occhi, per respingere un sonno che avanza, un sogno che arriva ed uno che se ne va. Alle undici e cinquanta sono abbracciati davanti al cancello. Lei palpita di sentimento puro, lui pende dalle sue labbra, dalla sua pelle giovane e sudata, come quella di una gazzella sfuggita all’attentato di un predatore. A mezzanotte in punto il cancello si apre, comincia il cammino di una vita, il sogno di una notte, l’afflato che li muoverà fino al mattino. Hanno deciso di arrivare fino a Lioni, di farlo di notte, come un tempo facevano i loro nonni, quando, per un voto o per diletto, ci si spostava da una collina all’altra, da una valle all’altra.
Lei riprende fiato, colore e profuma di rose. Lui mastica una liquirizia e odora di tabacco. Lui ha lo zaino sulle spalle, la mano in quella di lei. A mezzanotte e cinque minuti partono, passo dopo passo, carezza dopo carezza, sussurro dopo sussurro. Non ci vuole molto ad arrivare sulla provinciale che con poco più di due curve li porta a Carpignano. La Madonna, che da sempre abita quel luogo, li saluta alzando la mano, poi scostandosi i capelli gli augura buon viaggio. Da questo punto il percorso si fa in salita, si fa serio, i grilli cantano, la luna illumina il contado.
Salendo la salita la fatica arranca e il crinale del monte si fa più vicino. I passi passano in fretta, strusciando l’asfalto graffiato della via. Ad ogni masseria un cane abbaia, saluta con la coda e avvisa il socio più vecchio. Qualche cane si avventa sulla recinzione, ed i covoni di fieno hanno contorni nitidi al chiarore della luna. Un tasso ci taglia la strada, cammina goffo, taglia la via e si rituffa tra i campi. Non ha fatto caso alla nostra presenza, o forse non gli interessa. Sono le due quando tagliamo il bivio di Gesualdo, scegliendo di andare dritti sulla nazionale. A quest’ora non c’è gente, non c’è traffico, ma solo un via vai di curiosi scoiattoli dal mantello grigio. Poco più avanti di Pagliara, una famiglia di cinghiali, curiosa tra le nostre cose, grugnendo come maiali da recinto e amichevoli come un cane. Anatre da cortile starnazzano, allarmando la padrona, che dorme poco, accende la luce e si affaccia. “Chi c’è laggiù?” Grida, in direzione nostra, che con un poco di imbarazzo diciamo di essere viandanti, che per un voto alla Madonna, andiamo a piedi a Lioni. Due scoiattoli e tre marmotte ci seguono da un pezzo, sperando di ricevere il premio per tanta fedeltà. Spezzetto un po’ di pane e lo tiro in loro direzione. Gridano impazziti per il premio ricevuto, si fermano, ringraziano e sgranocchiano. Ci buttiamo giù per la discesa, che dopo le ultime case di Pagliara, porta dritta alla Mefite, poi a Santa Felice, ed infine a Rocca San Felice. La strada è secondaria, non ha più illuminazione. Io accendo una torcia, proseguiamo spediti. I cuori battono all’unisono quando un cane, di grossa taglia ci viene incontro con aria minacciosa. È pastore, pare del Caucaso, e il grugno sporco gli da un aspetto ancora più temibile. Ci annusa, ringhia, ci annusa ancora, sente l’odore del nostro cane. Siamo persone di fiducia, ci saluta con un inchino e si rifugia in una stalla, dove vacche succulente lo allatteranno fino al mattino.
La Mefite si fa sentire, con i suoi effluvi curativi e mortali. Le masserie nei pressi cominciano a prender vita. È l’ora in cui i contadini cominciano le attività nei campi, l’ora fresca che induce al lavoro; riposeranno quando il sole sarà alto allo zenit ed anche le cicale smetteranno di cantare. Dopo un breve tratto in salita siamo al cimitero di Rocca San Felice, dove ci compiaciamo di essere vivi e alla luce dei lumini ci scambiamo un bacio come segno propiziatorio e scaramantico. “Non è semplice essere vivi, oggi giorno, e per essere morti ci vuole meno coraggio”, dice lei, che afferra la bottiglia per il collo e ne butta giù un sorso, nella speranza che l’acqua diventi presto vino. Ma il miracolo non accade e le labbra si serrano forti al collo di lui, con la speranza di suggerne il nettare fatto di globuli rossi e globuli bianchi, dal colore amaranto, come il succo del melograno, come il vino novello, come la scorza del carmasciano lasciato ad invecchiare tra le vinacce. Ancora un poco e siamo al bivio di Sant’Angelo dei Lombardi, davanti all’ospedale illuminato, che fa bella mostra di se, silenzioso, nella notte nitida. Solo un gatto passa di lì, ci snobba e tira dritto. Ma si sa che i gatti sono diffidenti, e degli umani non hanno confidenza, con la speranza, nemmeno recondita, di dominarli, in un mondo fatto al contrario, di gatte solitarie che portano da mangiare ad umani da compagnia. Sono secoli che lo desiderano, ed il loro volere prima o poi si avvererà, per l’intanto filano via dritti con aria schifata, con passo regale e felpato. Ancora qualche curva e la sagoma sciapita di un templare ci viene contro, con la spada sguainata e sollevata, l’elmo calato sulla testa, la visiera ben abbassata sopra agli occhi, ed un mulo al posto del cavallo. Mi viene da ridere, ma lo salutò con un gesto della mano, sento un moto di piacere che sale dall’ armatura. Accanto a noi tira dritto, non ha tempo da sprecare, deve andare in guerra, perché la santa l’ha perduta ormai da un pezzo. Viene dal Goleto, dove ha riposato, per secoli fecondi di riposo e umanità. Ancora poche curve e siamo giunti alla metà. Un murales con un bambino in procinto di lagnarsi, ci accoglie con gran sorpresa e colorazioni. Alle sei in punto siamo nella piazza, dominata dalla chiesa della Santissima Assunta Maria, che dopo averci lasciati a Carpignano, ci accoglie come una madre che aspetta l’arrivo del figliolo.
Noi ci guardiamo, l’alba sta sorgendo appena e sopra agli Appennini, tra gli Alburni e i Picentini, si levano nuvole di fumo, come fuochi d’artificio, suffumigi di benessere animici. Noi ci abbracciamo, ci baciamo e cadiamo stremati su una panchina. Dormiamo.


Ciao Giuseppe, grazie per questo prezioso “prestito”. Buona Giornata.
https://masticadoresitalia.com/2025/02/24/giuseppe-tecce-da-grotta-a-lioni/
"Mi piace"Piace a 1 persona