Le notti d’Islanda

Guardavo dall’ovale del finestrino mentre l’aereo, finalmente, puntava dritto verso la terra ferma. Il viaggio era stato lungo: partiti da Napoli, avevano fatto scalo a Londra, per proseguire con una compagnia locale in direzione dell’Islanda. Era sera, ma l’aria sembrava sospesa in un limbo tra il giorno e l’imbrunire. Man mano che l’aereo si avvicinava, cominciavo ad intravedere le forme della costa, la linea di demarcazione tra la terra ed il mare. Poco più avanti, riuscivo a scorgere le distese sconfinate della tundra islandese. Chilometri di terra, fatti di muschio e pietre, pietre e rocce e ancora muschio, in un susseguirsi piatto e frastagliato, sui quali pesava come un macigno l’assenza totale di alberi. In fondo si intravedevano dei rilievi con la classica forma dei vulcani, quelli che ti insegnavano a disegnare a scuola, senza nemmeno troppa fantasia. 

“Lorenzo, preparati, che stiamo per toccare terra”, dissi rivolgendomi al mio compagno di viaggio, che sonnecchiava nel sedile accanto. Si stropicciò gli occhi, si stiracchiò e sbadigliò forte, destando la curiosità delle due donne della fila di sedili accanto. Io intanto mi ero già perso nel paesaggio islandese, a tal punto che seguendo con lo sguardo una strada in terra battuta che tagliava di netto la tundra, riuscivo ad immaginare Jan Garbarek, percorrerla con il suo fuoristrada, assorbendo quei silenzi tipici dell’isola, per poi sedersi su una roccia a comporre qualcuno dei suoi pezzi più ascetici. Io, di quell’isola, sapevo quasi tutto, o, almeno, credevo di saperlo. In quel tempo amavo la musica dei Sigur Ros al di sopra di ogni limite immaginabile. Da poco girava su YouTube un film, il resoconto di una tournée che avevano fatto in Islanda l’anno precedente. Il film, intitolato “Heyma”, che avrei appreso durante quel viaggio significasse semplicemente casa, segnava il ritorno della più famosa band post rock del momento, alla propria casa, alla propria terra: l’Islanda. In quel tempo ero arrivato persino a farmi installare una tv nel mio ufficio, dove riproducevo in loop lo stesso film musicale durante tutta la mia permanenza al lavoro, il che significava ascoltare i medesimi pezzi anche per dieci ore di fila. Tutto ciò non mi dava noia, quanto, piuttosto, un senso di pace e di armonia, amplificati dalle immagini leggere e potenti della natura islandese, verso le quali protendevo, di tanto in tanto, il mio sguardo. 

L’aereo scese dolcemente fino a toccare terra, con la leggerezza di una ballerina. Lorenzo era già in piedi nel corridoio quando l’aereo si fermò allo stallo, attirando l’attenzione dell’equipaggio, quando aprì rumorosamente la cappelliera sopra di lui, cominciando a tirare giù le valigie e le giacche a vento. 

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Scendemmo di corsa, assaporando l’aria fredda del giugno islandese. Inalammo con cupidigia l’aria del circolo polare artico, e ci sembrò di essere immersi nella storia di quegli avventurieri che avevano sfidato la sorte attraversando, con scarsità di mezzi e di risorse, quella linea immaginaria che delimitava l’ingresso nel Polo Nord. Che sferzata di adrenalina, toccare con la suola delle nostre scarpe la terra dei vichinghi, sfondo di tante imprese eroiche delle divinità norrene. 

Attraversammo di gran lena lo scalo di Rejkiavik. Proprio fuori alla porta degli arrivi, ci aspettava August, partner del nostro progetto e guida esperta dell’isola. August, che era rimasto nel suo fuoristrada per tutto il tempo, scese solo quando ci avvicinammo all’auto. Ci salutò con un sorriso e una forte stretta di mano, senza troppe parole, poi posate le valigie nel bagagliaio, ci portò di corsa all’hotel in cui avremmo soggiornato, nella periferia della capitale. Il viaggio era stato lungo e stancante, ma non c’era tempo per smancerie da femminucce. Avevamo 5 minuti, per farci una lavata di faccia, una buona pipì e buttarci addosso un po’ di profumo. Il sindaco di Akranes ci stava aspettando, con tutti gli altri partner del progetto, il cui focus erano i co-housing e l’housing sociale. August rimase fuori, in macchina. In cinque minuti, come concordato, eravamo di nuovo con lui: Lorenzo seduto sul sedile anteriore, io dietro, già attaccato al vetro per gustarmi la bellezza di quei paesaggi, che tanto avevo idealizzato nella mia mente. Da Akranes ci separavano poco più di trenta km ed un lungo tunnel scavato ben al di sotto del livello del mare, esattamente sotto ad una insenatura, una sorta di fiordo, circondata da monti scuri e privi di ogni forma di vegetazione. August ci spiegò con rassicurante soddisfazione che stavamo passando proprio sotto al mare e che quel tunnel aveva abbreviato la strada per Akranes di molti km. Arrivammo a casa del sindaco intorno alle 23.00, dove fummo accolti da un’aria rilassata e festosa. Finalmente avremmo modo di rifocillarci con piatti della cucina locale, cucinati magistralmente dalla moglie del sindaco, una simpatica donna sulla quarantina, della quale ricordo con vivida simpatia le accese scocche rosse all’altezza degli zigomi. L’accoglienza fu strepitosa, con abbracci, brindisi e canti fino a notte inoltrata, che, poi, tanto notte non era perché le giornate erano già così tanto lunghe che su quella terra non calava mai il buio totale. 

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Avemmo giusto il tempo di dormire qualche ora, quella notte, prima di prepararci per affrontare tre giornate di lavori, che si svolsero con gran serenità presso un edificio pubblico alla periferia di Rejkiavik. Un edificio moderno, basso, fatto di grandi vetrate, dalle quali si vedeva il mare e, dall’altro lato, un ghiacciaio, che si ergeva bianco in un cielo quasi sempre grigio, uggioso, e nebbioso. Di rado, in quei giorni, le temperature superarono gli otto gradi, ed è vivido il ricordo dell’uso di una giacca a vento, indossata sopra un giubbotto leggero, per proteggerci, alzando il cappuccio, da un vento, che soffiava, da nord, incessante e freddo.

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In quei giorni si parlò molto di co-housing e di soluzioni abitative condivise, con tutti i partner del progetto europeo di scambio di know how, promosso dal consorzio di cooperative di cui ero, all’epoca, Presidente. Terminati i lavori, però, io e Lorenzo avevamo ancora quattro intere giornate da dedicare all’esplorazione di quella terra tanto distante dalla nostra cultura, quanto avvolta in un alone di mistero. Con l’aiuto di August, noleggiammo un’auto, una berlina della Subaru, dal colore rosso fiammante. Lorenzo ne prese immediatamente i comandi e, di fatto, mi fece da autista per i successivi quattro giorni. Finalmente si partiva alla scoperta di quella terra che conoscevo solo attraverso la musica evocativa dei Sigur Ros e quella sperimentale e sognante di Bjork. Una terra fatta quasi di nulla, di rocce e ghiaccio, avara di vegetazione, ricca di vulcani e cascate imponenti. Partimmo il mattino presto, alla volta di una penisola, situata ben più a nord rispetto alla capitale, che ci era stata consigliata da Ísabel, che ne pronunciava il nome in un modo così evocativo che riuscivamo già ad immaginarne la bellezza. Partimmo senza aver concordato un percorso preciso, né tantomeno i luoghi in cui dormire.

La prima giornata trascorse lenta, spostandoci piano verso nord, cominciando a prendere confidenza con un paesaggio tanto bello quanto assurdo. Il cielo restava biancastro, il vento soffiava forte, prendendo velocità su una terra che offriva poche barriere per rallentarlo. Il paesaggio cominciava a diventare spettrale, e la tundra artica cominciava a circondarci, con il suo colore che era un misto di verde scuro e marrone. Di alberi non vi era nemmeno l’ombra e gli unici rilievi erano quelli che si erano formati intorno a vecchie bocche di vulcani, intorno ai quali si erano formati bassi coni di pietre nere, che ci divertivamo a scalare, scivolando verso il basso, ogni tanto, alla ricerca di un punto di vista più alto che ci desse una visione d’insieme più ampia di quella terra. Camminai scalzo sul tappeto di licheni verdastri che ricopriva le rocce circostanti a perdita d’occhio. Era un tappeto spesso e soffice, vellutato e caldo al contatto con la pelle. Sollevando lo strato di muschio, ci accorgemmo che aveva uno spessore ben superiore ai venti centimetri e che dalle rocce sottostanti si sprigionava un tepore, che proveniva direttamente dal cuore pulsante di quella terra, rimarcandone con forza l’origine vulcanica ed il suo legame stretto con le arterie della terra ed il suo sangue magmatico. 

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Quella sera del 9 giugno 2012 dormimmo al “the old post office guest house” a Grundarfjorur, un luogo cui si accedeva attraverso una telefonata da un vecchio telefono a gettoni posto solitario su di in palo in mezzo al nulla. Lorenzo, più pratico con la lingua inglese, concordò il prezzo per una camera doppia, l’uso delle docce e della cucina comuni. Aspettammo circa quindici minuti prima che vedessimo spuntare la prima auto della giornata, dalla quale scese una donna che aveva superato i cinquanta, che ci salutò cordialmente e ci fece strada fino all’edificio adibito ad ostello. Era un vecchio ufficio postale di campagna, trasformato in un luogo accogliente e caldo, in cui era possibile soggiornare ricordando che un tempo fu un ufficio di smistamento della corrispondenza di quella piccola comunità. 

La sveglia naturalmente incorporata dentro di noi, ci fece saltare giù dal letto alle 5. Alle 8 eravamo già al market per fare un po’ di spesa, ma, con nostra grande sorpresa, e soprattutto noia, ci accorgemmo che il market era ancora chiuso e dovemmo fare almeno un’ora di passeggio prima di vederlo finalmente aperto.  Facemmo la prima spesa islandese, acquistando prodotti di qualità non eccelsa, ma necessari per la sopravvivenza: crepes e pancake imbustati, uova, cioccolato, pane, mele e cetrioli, maniacalmente imbustati uno per uno. Scoprimmo poi che la frutta ed i vegetali erano merce rara e preziosa da quelle parti, e che arrivavano direttamente dall’Europa, per lo più Olanda e Danimarca, con costi esorbitanti, rendendolo un cibo raro e prezioso. Ci adeguammo subito al loro uso, consumando sacralmente fino in fondo tutta la frutta che acquistavamo, scoprendo una dimensione lontana dalla nostra, dove la frutta e le verdure erano alla base dell’alimentazione.  Preparammo la colazione nella cucina della guest house, scambiando qualche parola con un paio di persone che si erano avventurate in quella terra lontana e desolata. 

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Alle 10 finalmente eravamo in auto per partire alla scoperta di quella penisola, dalla forte energia, di cui tanto ci avevano parlato e che attraeva tante persone da tutto il mondo, per la sua capacità di ricaricare le batterie energetiche di ogni essere umano. Si partiva alla scoperta della penisola di Snaefellsnes, a bordo della nostra Subaru Impreza rossa.

Attraversammo i villaggi di Olafsvik e di Helissandur, ricalcando, almeno in parte, alcune delle tappe del famoso tour dei Sigur Ros, impresso nel film di cui già vi avevo parlato. Il tempo era tremendo. Il ghiacciaio Snaefellsjokull, sulla sinistra, era completamente ricoperto di nuvole nere, a tratti pioveva, la temperatura era di circa 8 gradi, il vento soffiava forte. Il paesaggio cambiava repentino e ci trovammo immersi in una sorta di deserto di detriti vulcanici ricoperti da uno spesso strato di licheni, anch’essi al tatto morbidi e caldi. Come ci consigliavano le guide del luogo, che consultavamo dai nostri smartphone, fu d’obbligo una fermata a Djupalonssandur. Lasciammo l’auto a ridosso di una scogliera e dopo un pezzo di strada percorsa a piedi, attraverso sentieri di terra battuta e pietrisco, arrivammo alla spiaggia nera, la cui sabbia nera ne denotava l’origine vulcanica. Attrazione della spiaggia era una vecchia imbarcazione inglese dell’800, arenatasi decenni prima e li rimasta in balia delle intemperie che l’avevano parzialmente sfasciata. Ci concedemmo, finalmente, una pausa di meditazione, sedendoci a gambe incrociate sul terreno nero, inspirando con forza l’energia che trasmetteva. Ne approfittammo per consumare un rapido pranzo a sacco e per procedere, poi, per Hellnar. Ne approfittammo, ancora, per una passeggiata lungo la scogliera per osservare il bellissimo panorama e le numerose specie di uccelli che li nidificavano. Sosta al Rimus Kaffi. Qui accadde un evento tanto strano quanto sconvolgente. Durante un’ultima escursione lungo la stradina in terra battuta, che scendeva giù verso il mare, costeggiando l’alta falesia, al di sotto della quale nidificano i puffin, scivolai nel punto in cui l’inclinazione verso il basso aumentava. Riuscii a mantenermi sul terreno grazie alla forza delle mani, che scavando nel terreno duro, riuscirono a contrastare la forza di gravità che pure mi aveva spinto al bordo del precipizio, dove le gambe, fino al ginocchio, erano già sospese nel vuoto, sopra a un salto di almeno 100 metri. Facendo forza sulle mani e sulle unghie, che cominciavano a sanguinare, riuscii a tirarmi su e a riconquistare la cima della falesia, dove rimasi disteso a terra, distrutto dallo sforzo e dalla paura, per lunghi, interminabili minuti. Poco dopo, bevuta una fumante tazza di the al bel caffè in legno situato proprio di fronte, ripartimmo in auto, sostando a Stykkisholmur per la cena. Ritornammo, infine, alla guest house dalla quale eravamo partiti.

 

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La mattina della domenica 10 giugno 2012 ci vegliammo in un orario più umano, e dopo aver consumato una calorica colazione, partimmo per Laugarvath. Sostammo a Borgarnes presso la stazione di servizio. C’era un vento impressionante. Credevo, a quel punto, che fosse una caratteristica dell’isola, visto che ci aveva fatto compagnia in ogni luogo del nostro itinerario. Lungo il tragitto incontrammo Fingvellir. Fingvellir era un parco nazionale ed era famoso, perché in quel luogo incantato, fatto di prati verdi e laghi, vi era la falesia al di sotto della quale si formò e funzionò il primo parlamento del mondo nel 930 d.c.

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Proseguimmo per Laugarvath. Sostammo all’ostello della gioventù. La nostra camera non era nell’ostello, ma in una dependance vicina, immersa nel verde e con vista su un lago. Alle 16 partimmo per il Geyser e con gran soddisfazione, ne visitammo il parco adiacente. L’odore di zolfo era forte, ma lo spettacolo era unico. Proseguimmo, infine, per Gulfoss, dove arrivammo dopo appena 10 km in auto. Lì avemmo modo di osservare una delle più grandi forze della natura all’opera: le cascate di Gulfoss. Rientrammo all’ostello stanchi, ma soddisfatti, dove consumammo la cena nella cucina comune della struttura. 

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L’ultimo scampolo di giornata, trascorse sereno e tranquillo, immersi nelle acque caldo e bianche di “Blue Lagoon”, le terme rigeneranti nei pressi di Rejkiavik. Scoprimmo poi che non si trattava di vere acque termali, ma di una piscina artificiale riscaldata dall’energia geotermica che freme nel sottosuolo, in attesa di essere portata all’esterno e di regalare emozioni inedite, oltre quelle spaventose dei vulcani. Poco dopo, il volo del ritorno ci attendeva puntuale.

Pubblicato da Giuseppe Tecce

Scrittore di saggi e romanzi

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