Quando hai più di 50anni ti capita spesso di pensare al tempo che è passato e a quello che rimane.
Ti ritrovi a fare un pò di conti pensando a quanto hanno vissuto i tuoi parenti più stretti: i miei antenati mediamente hanno vissuto 80 anni.
E così ti ritrovi a contare gli anni che ti restano, se pure dovesse andare tutto bene. Valutando le probanilità genetiche gli anni non sono molti ma ci sono. C’è stato un tempo in cui non contavo il tempo rimanente perché avevo sempre la percezione di essere sempre e per sempre. Non c’era letteralmente niente da contare. La vita era come continui lampi improvvisi e non ti metti certo a contare il tempo di un lampo. Non si tratta di dire se era meglio prima o adesso, ma di riconoscere il punto in cui siamo adesso e trarne il meglio. Il tempo che passa ci fa perdere elasticità e vigore nella parte del corpo che agisce, ma c’è un’altra parte del corpo, una parte che curiosamente chiamiamo anima, e invece è solo il luogo del corpo che conosciamo poco, che è in contatto col mistero, con l’altrove, con il Divino. Ecco, a questa parte del corpo il tempo che passa dona profondità e può rimuovere il rigido, il meccanico, e renderci lievi, capaci di entrare e uscire, ci permette di sentirci una rosa e un filo di vento, ci permette di piangere e di sentire veramente una carezza.
Il tempo che passa non è una sconfitta e non è una vittoria. Non c’è niente da misurare.
La vita non è una pizza a metro di cui poi ti resta solo l’orlo.
La vita non è solo la schiena che duole e la vista che si abbassa. È anche una nuova consapevolezza, una pazienza, una comprensione, una generosità. Accettare le proprie e le altrui fragilità, giudicare gli altri e se stessi con benevolenza, ricavare goia dalle piccole cose, essere accoglienti e tolleranti, amare la terra che si calpesta e tutti gli esseri che la popolano.
Questa è la migliore eredità per il tempo che ci resta.
Kronos e Kairos.
Contando gli anni, mi torna in mente quando mio padre, stanco del miei malesirivizi giovanili, si convinse che qualcuno mi aveva fatto una fattura e mi portò a Calitri da Zi Michele, aggiustaossa, guaritore e mago.
Zi Michele abitava in campagna. Appena entrati zi Michele mi portò nel suo malazeo e da un sacchetto di canapa prese una manciata di fagioli che pose sulla boffetta. Poi prese altri 10 fagioli contati e li mise di fianco alla manciata. Infine tolse alcuni fagioli dal mucchietto e 5 fagioli dai dieci. Mi guardò e disse: ” vagliò, li fasulli tuii songo assai, li mii stanno fenenno. Non sprecare i tuoi fagioli altrimenti alla fine li rimpiangerai. Usciti dal malazeo, disse a mio padre che aveva fatto l’incantesimo per togliere la fattura e non pretese niente come compenso.
Oggi contavo li fasulli re zi Michele lo calitrano e sono convinto che l’antica saggezza irpina non fallisce mai.