A Rocca San Felice

Gerardo era arrivato in fretta, dopo la mia chiamata. Era arrivato con una Golf nera, tutta smantellata, con il paraurti anteriore appeso da un lato, il faro mancante, ed un lunghissimo struscio sulla fiancata, dallo stesso lato. Era arrivato da Rocca San Felice, alle diciannove in punto. Io ero seduto all’ombra di un fico, proprio di fronte all’abitazione. Davanti a me un tavolino tondo di ferro, lavorato, credo, artigianalmente e quattro sedie in ferro battuto. Io non sapevo, di preciso, dove mi trovassi, né tantomeno sapevo la distanza tra quell’abitazione ed il centro abitato più vicino. Queste cose le avrei scoperte in seguito.
Ciò che vedevo era ciò che esisteva, dal mio punto di vista, e ciò che vedevo era una casetta a due piani, di forma rettangolare, colorata di un giallo paglia, e sulla sinistra, attaccata ad essa, un’ulteriore casetta, anch’essa rettangolare, più piccola e colorata di bianco. Tra il giardino in cui sedevo, e la casa gialla c’era una strada; stretta, con un’unica carreggiata, ma messa bene, appena asfaltata, che contrastava con il disordine che c’era tutto intorno. E tutto intorno a me, c’era il disordine: un trattore arrugginito, da un lato, un altro trattore dal quale era stato asportato un pezzo anteriore, appezzamenti di terra coltivati a foraggio, dove il grosso del foraggio era stato tagliato e sistemato in grosse rotoballe, con scarti di paglia sparsi sul terreno, che il vento forte della sera spargeva anche sulla strada. Ce n’era di vento sabato sera, nonostante fossimo solo al primo week end di agosto. Tutt’intorno, gli alberi non davano l’idea di essere molto in forma: rami secchi, foglie ingiallite e spazzate via dal vento.
Il vento, quello sì che sapeva fare bene il suo mestiere, sabato sera. Soffiava forte da sud-ovest il vento di libeccio, spazzando via l’afa del giorno, zittendo le cicale, mettendo fine alla quiete calda della controra, riponendo al sicuro e a riposo la bestia del grano, che aveva poco da fare, ormai, ora che il grano era stato mietuto. Qualcuno, però, già dalle parti del Formicoso, da dove provenivo, mi aveva avvisato che, nonostante la mietitura anticipata dal gran caldo, la bestia del grano continuava a scorrazzare indisturbata per i campi tagliati della zona ed in tanti avrebbero giurato di averla vista nell’arco dell’ultima settimana.
Mi ero fermato al margine della strada, poco prima del bivio per Guardia Lombardi, e mi ero messo a fare conti con un simpatico signore che armeggiava su un trattore. Non ci volle molto che la combriccola si allargasse e che si finisse a parlare proprio di mietitura e della bestia del grano. Tutti i presenti erano certi di averla vista almeno una volta nella vita, confermando l’antico proverbio: “una volta nella vita non si nega a nessuno”. Più complicata diventava la faccenda quando il discorso si spostava verso gli avvistamenti fatti nel periodo successivo alla mietitura. A quel punto il gruppetto si spaccava in due parti: da un lato c’erano Antonio, Pasquale e Carminuccio, tutti e tre di una zona più vicina a Guardia Lombardi, che sostenevano che dopo la mietitura era impossibile osservare la bestia, perché era venuto meno il suo habitat naturale. Dall’altro lato c’erano Luigi, Generoso e Gerardo, che erano della zona di Oscata, che sostenevano di aver avvistato la bestia anche dopo la mietitura. Uno di loro, addirittura, si era spinto a farmene una descrizione: “era come una faina ma con una lunga coda bianca”, sollevando le ilarità dell’altra parte che, tra sghignazzi e sgomitate, sosteneva che fosse, per l’appunto, una faina.
Gerardo di tutto ciò, però, non ne sapeva nulla e poco gli interessava. Parcheggiata la Golf davanti alla casa bianca, era sceso, venendo dritto verso di me, con la mano allungata in avanti, in segno di saluto. Era alto poco più di un metro e sessanta, rotondo quel tanto che serviva da dargli un aspetto da contadino rubicondo. La mano callosa, che indicava una vita fatta di fatica manuale nei campi, contrastava con la pelle liscia della mia; una mano da ufficio, da uomo cittadino, poco avvezzo ad avere a che fare con i lavori manuali. Ci stringiamo la mano, è gioviale e cordiale. Mi sciolgo, mi metto a mio agio e divento cordiale come lui. Si siede di fronte a me, e comincia subito a parlare: “da dove vieni?”
Gerardo la tua domanda si presta ad una duplice interpretazione: con la domanda “da dove vieni” vuoi chiedere la mia città di provenienza, oppure il luogo da cui provengo e dove ero prima di venire qui?
Gerardo ci pensa un po’, poi, con tutta tranquillità mi dice: “no, no, voglio sapere proprio di dove sei?” Poi, con un mezzo sorrisetto, aggiunge: “che mi frega da dove stai venendo oggi”.
“Ecco”, rispondo io, con altrettanto sorriso, “ora sì che la domanda è più chiara: vengo da Benevento”.
Gerardo si illumina: “Benevento! La frequentavo spesso, venti anni fa, mi dice. Ma è ancora la bella cittadina di allora?”
Cerco di tagliare corto: “la città resta sempre la bella città di una volta, solo che è amministrata male”.
Mi fa qualche domanda sull’amministrazione, ma cerco di glissare: “Gerà, sono venuto per riposarmi, non di certo per parlare di politica”.
Gerardo sorride, comprende il mio disappunto e cambia subito argomento.
Mi racconta, come se ci conoscessimo da sempre, che per tre anni era rimasto bloccato a letto, con una brutta ernia del disco, che lo aveva quasi paralizzato. “Pesavo 67 kg, prima di quell’episodio, poi, che vuoi farci, i farmaci, il cortisone, l’immobilità mi hanno ridotto così. Ora di kg ne peso 94”.
“Non va bene” gli faccio eco, “sei ancora giovane e dovresti rimetterti in forma”.
“Giovane” sorride lui. “Quanti anni mi dai?”
Lo guardo, lo scruto, poi sparo la mia sentenza: “A mio avviso non hai più di 56 anni”.
Gerardo sorride divertito: “di anni ne ho 62”.
“Complimenti”, rispondo. “Al di là della faccenda del peso, non te li porti male”.
“Due cose mi hanno salvato dal calvario: le bestie”, ed indirizza lo sguardo verso i cani, i gatti, che scorrazzavano liberamente sotto ai nostri piedi e poi alle mucche che pascolavano poco più in là.
“E poi”, gli faccio io di rimando.
“E poi”, continua lui illuminandosi in un sorriso ancora più luminoso, “mia moglie e mio figlio”. Poi si ferma, ci pensa su un po’, poi continua: “è la mia quarta moglie, sia ben inteso. Ho già due figlie grandi, di 40 e 35 anni che vivono lontano da qui. Quest’ultimo mio figlio, il maschio, ha ventidue mesi”.
“Me lo fai conoscere?” gli chiedo con spontaneità.
“Ora sono in Ucraina. Lei è di Odessa, ed è andata lì per stare un po’ con la famiglia. Ma credo che sia quasi ora di tornare”.
Gerardo si commuove a parlare dell’ultima moglie e soprattutto del tanto atteso figlio maschio. Se ne accorge e cerca di togliersi dall’impaccio: “ora devo governare e chiudere gli animali”.
Appena si alza dalla sedia, accorrono una decina di cani ed un gatto dalla coda arricciata.
Gli chiedo se fossero tutti suoi quei cani. Lui mi risponde che solo i due pastori scozzesi, Alfonso e Rita, erano propriamente i suoi cani, tutti gli altri erano dei cuccioli randagi della zona, che un po’ per volta si erano aggregati e che, ora, facevano parte della sua famiglia allargata. Li chiamava tutti per nome, ed avevano tutti un nome di persona: Alfonso, Rita, Franco, Gennaro, Anna, e così via di seguito, per quanti cani c’erano.
Capii subito che, a dispetto dell’aspetto fisico, il suo cuore era grande e che, per lui, non c’era poi tanta differenza tra animali ed esseri umani: tutti, a suo avviso, erano dotati di un’anima e, in quanto tali, erano degni della sua compagnia e della sua custodia.
Mi accompagnò, frettolosamente, nella camera che mi aveva riservato per la notte, al secondo piano della casa gialla. Passammo attraverso una grande sala da pranzo, poi salimmo delle scale esterne, e da lì apri la porta che dava nella camera da letto, che affacciava sul retro della casa. Lui scese, indaffarato, per sistemare le mucche e le tante pecore che pascolavano libere tutto intorno. Le sistemò in un grande recinto, ed io lo guardavo orgoglioso.
La notte, però, l’ho passata in bianco, per via del campanaccio appeso al collo di Carolina, la mucca più grande, che, quella notte, ha fatto un concerto solo per me. (Inedito da “I racconti della Terra di Mezzo”, di Giuseppe Tecce)

Pubblicato da Giuseppe Tecce

Scrittore di saggi e romanzi

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