Storie dal Supermercato

Roberto parcheggiò il fuoristrada proprio sotto all’insegna più grande del centro commerciale. Con sicurezza aprì lo sportello, stando attento a non urtare la macchina accanto. Tirò fuori dal predellino il primo piede, cercando a tentoni di arrivare fino al piano stradale. Non ci riuscì al primo tentativo. Il fuoristrada era alto e non era facile, per un uomo più basso della media, riuscire ad allungare la gamba fino a terra restando ancora seduto al posto di guida. Con un saltello si buttò letteralmente giù dal sedile, toccando finalmente terra con entrambi i piedi. I polacchini scamosciati, di colore azzurro pastello, erano un tocco di estro sotto ad un pantalone di colore neutro e ad un maglione di lana pettinato grigio. Sopra un fay blu scuro, portato sbottonato, slanciava la figura dell’uomo, che pure era di per se ben proporzionato.

Scese dall’auto con aria soddisfatta, e si aggiustò la coppola grigia che sembrava fare un tutt’uno con la barba brizzolata.

Il cielo si colorava di rosso ed arancio, e qualche nuvola si poggiava sulle colline di fronte, disegnando un paesaggio onirico in mezzo ai campi ben arati e sistemati a mo’ di scacchiera. Era l’ora del tramonto, e l’aria era intrisa dei sapori e dell’allegria del periodo pre natalizio. Tutto lasciava presagire ad una piacevole serata di fine autunno, dopo una lunga giornata di lavoro. Roberto anche quella sera aveva gli occhi rossi, come spesso gli accadeva nell’ultimo periodo. Era un ingegnere informatico e trascorreva le giornate incollato allo schermo di un pc, a tagliare stringhe e ad inserirne delle nuove, a risolvere bug e a fortificare i sistemi di sicurezza.  Il lavoro non lo aveva mai spaventato, lo svolgeva con piacere. D’altronde era il lavoro che si era scelto, ma ultimamente gli procurava dei forti bruciori agli occhi, che curava, quando si ricordava, con gocce di collirio instillate direttamente nella congiuntiva. Appena sceso dall’auto si rese conto di avere la vista annebbiata, mentre il bruciore, principalmente all’occhio sinistro, lo costrinse a stropicciarsi e a massaggiare i bulbi oculari con movimenti lenti e profondi. Fece il giro dell’auto, ed aperto lo sportello passeggero, rovistò nel cassetto davanti al cruscotto in cerca delle gocce. Da qualche parte dovevano pur essere finite, perché sapeva bene di averle riposte lì, qualche giorno prima. Fu distratto solo dall’arrivo di due messaggi, che lèsse direttamente dallo smartwatch, che portava notte e giorno al polso sinistro. Con aria soddisfatta alzò al cielo il contenitore delle gocce subito dopo averlo trovato e lo mise controluce per controllarne il contenuto. Misurò con perizia che, al massimo, dal contenuto del boccettino, ne avrebbe ricavato quattro gocce e che nel metterle avrebbe dovuto usare mano ferma, per non perderne nemmeno una. Sollevò gli occhiali fin sulla fronte, poi abbassata la congiuntiva dell’occhio sinistro, instillò una, due gocce. Strinse, subito dopo, l’occhio per il forte bruciore e massaggiò la palpebra con un gesto rotatorio per distribuire bene il collirio sulla sclera. Ripetè la stessa operazione per l’occhio destro. Strinse ugualmente le palpebre, sentì un bruciore intenso, come un fuoco che ardeva da dentro. Una smorfia delle labbra sottolineò il momento del dolore più acuto, poi tutto si normalizzò.

Con gli occhi ancora offuscati dal medicinale si voltò verso il centro commerciale, che si stagliava nitido contro il cielo viola e blu della sera. Sopra campeggiava enorme la scritta: Centro Commerciale Il Noce, accesa di una intensa luce rossa, contornata da una sottile linea blu che la rendeva più elegante. Il riflesso della luce era tale che sia l’asfalto, che le macchine parcheggiate, ne riflettevano il colore e l’intensità.

Nell’aria c’era già la melodia del Natale e tutto partecipava a rendere indimenticabile quella sera di metà dicembre.

Roberto si sistemò il collo della giacca, un’ultimo tocco al cappello e spinse più su gli occhiali, avvicinandoli alla radice del naso, poi si diresse spedito alla porta d’ingresso del centro commerciale.

Si lasciò alle spalle l’aria fredda della sera dicembrina, e un mondo fatto di luci, colori e suoni gli si parò davanti. C’era un distacco forte tra la quiete esterna ed il bombardamento audio visivo dell’interno. Si sentì stranito, e proprio non si aspettava quel tipo di accoglienza. Eppure era avvezzo a recarsi in quel centro commerciale, e lo faceva praticamente tutti i giorni. E lo faceva con piacere, perché lì, in quel luogo lavorava la tipa che gli piaceva tanto, quella che sognava di notte, con cui faceva passeggiate oniriche, galoppate tra prati verdi, corse sulla battigia della spiaggia di Positano. Si, proprio lei era la calamita delle sue peripezie in quel centro commerciale. Ma aveva l’usanza di praticarlo di mattina, magari in tarda mattinata, e in quelle ore del giorno, forse complice la luce che entrava prepotente attraverso le grandi vetrate perimetrali, le luci natalizie non si notavano, e quasi perdevano di significato. Di mattina regnavano gli odori, più che i colori: l’odore del pane appena sfornato, quello della parmigiana, e della pizza di scarola. A quelli si univa l’odore acre del signore che, probabilmente, non si lavava da settimane, ma che si muoveva con disinvoltura e passo cadenzato, spostando cose e toccando di tutto. Dietro, magari, arrivava la commessa che spruzzava deodorante, con l’intento di attenuare il disagio per gli altri avventori, ma finendo sempre per peggiorare le cose. Di giorno, quelle, erano scene di vita ordinaria, di vite intrappolate in quella grande scatola di cemento, ma che pur dovevano vivere, espletando tutte le funzioni di un essere vivente. Un mondo fatto, a suo modo, di emozioni, batticuori, parole belle e parole brutte, di lavoro, fatica, sudore, stanchezza, amicizia, amori, chiacchiere, e simpatie.

Ma di sera, di sera, sembrava tutto un altro mondo. L’atmosfera diventava rarefatta. Sembrava che la morte non potesse più appartenere ad un luogo del genere, sembrava che le luci avessero vinto, con prepotenza, l’eterna battaglia in cui si sfidavano con le tenebre. E lì, in quel luogo, sembrava che per le tenebre non ci fosse proprio più posto. Fili lunghissimi di luci colorate si intrecciavano fittamente con le travi del soffitto, aumentando la forza dell’impianto d’illuminazione, che già di per sé, era sufficiente ad illuminare a giorno l’intera superficie coperta. Dalle grandi vetrate perimetrali non entrava più la luce, ma si intravedeva qualche ombra che si spostava nel buio della sera. Le lucine colorate, che pendevano a fili dal soffitto, coloravano, con un tocco di fantasia artistica, sia il soffitto, che il pavimento, che le vetrine dei negozi.

Sulla sinistra, al banco del bar, un ragazzo, alto, con una giacca corta di montone e senza calzini, come come era d’uso fra i ragazzi più giovani, beveva un caffè e sorrideva parlando con una ragazza più bassa, ben fatta, dai lunghi capelli dorati, lisci lisci, che arrivavano fin oltre la metà della schiena. Lei fasciata in un jeans largo e un bomber, che poco faceva vedere delle sue forme, ma che tutto lasciava immaginare per come si muoveva, sorrideva e per la perfezione simmetrica dei tratti del volto.  

Roberto li guardò con tenerezza, come si guarda un figlio di quell’età, come può fare un padre con un figlio che si avvia verso le prime esperienze della vita, quelle che, probabilmente, gli lasceranno il segno per sempre. Pensò a quanto potesse essere complesso il mondo di ogni singolo essere umano, tutto racchiuso in una scatola cranica ed un cuore, e di come, in quel piccolo ammasso biologico, ci si potesse racchiudere un universo intero, fatto di emozioni, paure, gioie, dispiaceri.

Gli piaceva immaginare la fitta rete di neuroni che si scambiavano messaggi alla velocità della luce. Segnali di luce e di chimica che viaggiavano spediti per dare vita all’intero corpo, a quell’ammasso di cellule che poco avrebbero significato senza gli impulsi cerebrali. Alla fine, pensava, è la chimica che ci dà vita, e la chimica altro non è se non l’insieme degli impulsi che mette in moto quegli ammassi di carne ed ossa, di sostanze vive, in eterno moto e mai putrescenti.

Roberto pensò al sistema nervoso centrale e a come il cervello si innervasse con la restante parte del corpo, attraversando i fori stretti del rachide cervicale, diventando un tutt’uno con il midollo della spina dorsale. Si voltò nella direzione opposta. I suoi occhi si posarono sulle decine di persone che ne attraversavano i corridoi e le immaginò senza più corpo. Solo cervelli e colonne vertebrali che si muovevano come in una scena di un film macabro. Ovviamente erano immagini che solo lui poteva vedere e non gli procuravano nemmeno più il distacco e la paura che pure aveva provato quando quelle visioni erano cominciate, anni addietro. Si, perché Roberto con quel tipo di visioni ci conviveva e lo faceva da anni. La fervida fantasia lo portava a vedere gli esseri umani ridotti veramente all’osso. A volte non riusciva nemmeno a ricordarsi della fisionomia del suo interlocutore, per quanto fosse focalizzato sul suo interno, in primis sul sistema nervoso. A volte riusciva ad immaginare, o a vedere, le ramificazioni dei nervi attraverso le braccia e più giù verso le parti molli dell’intestino, fino alle gambe e ai piedi. Una sorta di figura umana ridotta all’essenziale, ad una scultura filamentosa dalle sembianze di un essere umano. Il motore generatore del bene e del male, così gli piaceva immaginare e chiamare quell’ammasso di filamenti, pieni zeppi di ramificazioni piccolissime, che avrebbero innervato l’epidermide. Ed era proprio grazie a quell’insieme di filamenti che ogni essere umano, uomo o donna che fosse, avrebbe provato tutte le sensazioni e le emozioni della propria vita: il caldo ed il freddo, il dolore ed il piacere, la carezza della madre e quella dell’amante, l’umido della brina mattutina e l’asciutto del mezzogiorno.

Scosse la testa come a dire no, per scrollarsi di dosso tutto l’ammasso di visioni che aveva generato, per tornare con i piedi per terra e ritornare ad una visione più umana.

Così gli esseri umani tornarono ad essere fatti di carne, ossa e cappotti e camminavano, lenti o spediti, nei lunghi corridoi che gli si paravano davanti. Aveva quasi scordato il motivo per cui si trovava lì, che lo spingeva, quasi ogni giorno, ad essere lì. Il motivo della sua presenza era Giusy, la cassiera del supermercato, la ragazza di cui era segretamente innamorato.

Roberto era un cinquantenne moderno, in gran forma, attento a ciò che mangiava, attento a mantenersi in forma con il giusto tempo di dedicazione al movimento. Di corporatura media, non robusto, non magro, di altezza media, non superiore al metro e settanta, un lavoro da ingegnere informatico, con una buona posizione economica, concreto e materialista non era di certo uno che si poteva perdere in chiacchiere inutili o in cose futili.

Però quella ragazza lo aveva calamitato, con i suoi grandi occhi scuri, le ciglia lunghe, le guance paffute ed adorabili, come quelle di un castoro, di altezza media, magra al punto giusto da lasciare intatte le forme che rendono desiderabile una donna. Una bella donna, che a stento arrivava a trent’anni, pienamente consapevole della sua bellezza, della sua presenza forte ed integrata nel mondo che la circondava, fieramente addetta ad un ruolo di rilievo nella filiera della distribuzione alimentare. Giusy non aveva mai considerato il suo lavoro come degradante o costrittivo, anzi, al contrario, era consapevole del ruolo che ricopriva nella catena della grande distribuzione. Era il suo modo di dire grazie al mondo per tutto ciò che le aveva donato fino a quel momento. Come tutte le ragazze della sua età, soffriva un po’ per la mancanza di quella libertà a cui ogni tanto anelava. Ma, forte dell’energia di una donna trentenne in ottima salute e forma fisica, si concedeva, di tanto in tanto, lunghe maratone notturne, per recuperare hobby e divertimenti cui doveva rinunciare durante la settimana. Non disdegnava nemmeno qualche buona mangiata, e anche una gran bella bevuta. Era una delle cassiere, ma, all’occorrenza, ricopriva anche altri ruoli. Capitava spesso di vederla in giro per il grande magazzino, a sistemare generi alimentari nelle lunghe scaffalature, o a supervisionare la qualità del pesce o della carne.

Quella sera Roberto la incontrò nello stretto corridoio che si era creato tra il banco delle verdure e la scaffalatura delle marmellate. Roberto, abbagliato dalle luci, con la vista ancora appannata per via delle gocce oftalmiche, se la trovò di faccia quasi all’improvviso.

E che fai, mi vuoi buttare a terra come un birillo? Disse lei, sorridendo con quelle guance gonfie che faceva venire voglia di stringerle e poi di pizzicarle.

Giusy, disse Roberto, con il tono di chi passava di lì per caso. Nel vederla sentì sconquassarsi dentro. L’intestino ebbe un sussulto ed una contrazione involontaria che lo indusse in un colpo di tosse, secco e forte. Poi ebbe la sensazione di un capogiro e sentì l’orecchio destro contrarsi e poi fischiare forte. Fu costretto a portare il dito indice sull’orecchio e a premere con forza sul trago, cercando sollievo da quel tragico acufene, avvedendosi, poco dopo, del fatto che la sensazione era stata determinata da una improvvisa contrattura delle spalle e dei muscoli del collo. Era un atteggiamento difensivo, che assumeva ogni qual volta si sentiva minacciato da qualche elemento esterno, talvolta benevolo, che lo poneva in imbarazzo. I muscoli, così tesi, determinavano una sensazione di oppressione alla parte interna dell’orecchio, che, a causa della sofferenza, finiva per dissipare lo sforzo in un acufene grave.

E che fai, diventi rosso? Disse ancora lei con il tono stupito di chi non si era ben reso conto di quanto stesse accadendo.

È l’ossidazione….oddio, come si dice, balbettò Roberto.

Ma che stai dicendo, ribatté lei. Di quale ossidazione stai parlando?

È l’ossidazione piroforica, proseguì Roberto, cercando di tirarsi fuori dall’ impaccio.

E che diavolo è l’ossidazione piro….pirocomehaidetto?

Piroforica, ribadì lui. Vedi esistono delle sostanze che a contatto con l’aria si ossidano immediatamente, producendo molto calore.

E cosa c’entri tu con quelle sostanze?

C’entro nella misura in cui io mi sto comportando esattamente come quelle sostanze. Vedi che sono diventato tutto rosso ed emano calore?

Ahhhhh si, è vero. Sei tutto rosso e aspetta, disse lei, facendo il gesto di allungare la mano verso la fronte di lui, in un gesto antico e materno, per percepirne la temperatura corporea. Oh come scotti, continuò lei, che ritrasse immediatamente la mano, soffiandoci sopra con forza e ritmicità.

Roberto non balbettare, Roberto non balbettare, ripeteva Roberto tra se e se. Poi pensò: ma quante diavolo di cose devo tenere sotto controllo? Non fece in tempo a pensare a quella cosa, che si ritrovò in terra svenuto.

Giusy emise un urlo lungo e stridulo, per attirare l’attenzione delle persone circostanti, non sapendo bene cosa fare in una situazione come quella. Si ricordò di un corso di primo soccorso, ma un conto era imparare certe cose in un corso, ben altra cosa era stare di fronte ad una persona svenuta, e dover decidere sul da farsi per farla stare bene.

Le persone, intente fino ad un attimo prima a fare la spesa, udite le urla, si radunarono intorno al corpo di Roberto, placidamente disteso a terra, quando, all’improvviso, il suo corpo cominciò a liquefarsi. E si liquefece, tra lo stupore generale, in pochissimo tempo. E non solo si liquefece lui, ma anche tutti i vestiti che aveva addosso. Una energia interna, potentissima, aveva preso il sopravvento ed aveva governato quel fenomeno, a dir poco, eccezionale.

A terra, in luogo del corpo di Roberto, si formò una grande pozza d’acqua, colorata dei colori degli abiti che indossava, che si estese fin sotto le scarpe delle persone accorse, sperando di poter dare aiuto, comprese le scarpe di Giusy, la quale, aveva esaurito tutto il fiato che aveva in corpo, e se ne stava in silenzio incredula per quanto stesse accadendo.

L’acqua, giacque in terra per un po’. Molti la calpestarono, in un gran chiacchiericcio. Che diavolo mai era successo? Come era possibile che un corpo umano, coperto dai consueti vestiti, si sciogliesse in quel modo, diventando acqua sporca. Qualcuno si sentì mancare, qualcuno si affrettò a dare qualche interpretazione, qualcun altro rideva, convinto che fosse opera di un illusionista e che fossero in una gran ben riuscita candid camera.

Giusy era immobile, non sorrideva più, le guance adorabili da castoro erano scese verso il basso, ed aveva l’aria sbigottita. Proprio non capiva cosa fosse successo, anche perché era successo tutto così in fretta. Aveva lo sguardo fisso su quella grande pozzanghera d’acqua torbida, le mani al volto, massaggiandosi lentamente il punto in cui i capelli si attaccavano alla fronte. La bocca era leggermente aperta, in senso di meraviglia; quasi non respirava più.

L’acqua, quella stessa acqua che bagnava il pavimento, infilandosi sotto le scarpe di tanti presenti, lentamente cominciò a risalire attraverso le scarpe di Giusy, risalendo poi attraverso le calze, il pantalone, la camicia, il cardigan, la pelle, l’addome, il torace, le spalle, le braccia, fino alla testa e poi i capelli. Giusy, sempre più incredula, rimase immobile, incapace di proferire parola e di muoversi. Era vittima o protagonista di un fenomeno che nessun essere umano aveva mai visto fino a quel momento. Quando tutta l’acqua che era in terra si esaurì, asciugando il pavimento, e si era trasferita sopra e dentro il corpo di Giusy, le persone intorno, sempre più convinte che fosse uno show organizzato per attirare la loro attenzione, si lanciarono in un caloroso applauso. Intanto il capannello di persone era aumentato, ed il cerchio intorno a Giusy, arrivava ben oltre il banco delle verdure, lambendo quasi il grande frigorifero a vetrina dove erano conservati i freschi.

Roberto, perché hai fatto così? Roberto dove sei? Disse Giusy, che in un attimo finì in terra svenuta.

Subito il chiacchiericcio delle persone si fece più fitto. Qualcuno urlò il nome di Giusy, con l’intento di farla risvegliare dal torpore. Dal cerchio di persone si fece strada un uomo grosso, che si faceva spazio urlando: sono un medico, lasciatemi passare, sono un medico. La folla si aprì e lo lasciò arrivare fino alla ragazza. Con perizia le prese il polso, ne ascoltò il respiro ed il battito.

Spazio, spazio, urlò, lasciatela respirare. Allontanatevi da qui.

Nel mentre, degli scaffalisti, che fino a quel momento, erano rimasti ai margini del cerchio, udendo gli ordini impartiti dal medico, si attivarono all’unisono, facendo defluire le persone in direzione dei reparti gastronomia e pescheria. Poi, fatto defluire il grosso delle persone, si misero intorno al corpo di Giusy, formando uno scudo di protezione con i loro corpi.

Dottore, disse uno smilzo, non sarebbe meglio spostarla da qui, e portarla nel magazzino, che è dietro quella porta? Li avremo la tranquillità e l’intimità giusta per effettuare tutte le manovre necessarie.

Il dottore annuì con la testa.

I ragazzi si attivarono immediatamente, prendendo Giusy dai piedi e sotto le ascelle, portandola, quasi fosse un grosso sacco di patate, subito dietro la porta che si aprì automaticamente al loro arrivo.

Giusy adagiata sopra dei cartoni aperti a mo’ di lenzuola, rinvenne poco dopo, sotto le cure amorevoli del medico, che sentenziò che il sovraccarico di emozioni, di cui Giusy era stata partecipe, le aveva procurato una sincope. Le emozioni eccessive, come i grandi dispiaceri, non sono avulsi dal nostro corpo, spiegò ai ragazzi che erano rimasti con lui. Il sistema nervoso si può sovraccaricare di impulsi che finiscono per far aumentare, anche di molto, i battiti cardiaci e la pressione sanguigna, determinando lo svenimento della persona. Lo svenimento in sé, null’altro era se non una messa in sicurezza attuata automaticamente dal corpo, per evitare che la spirale di emozioni e di tutto ciò che ne derivava, potesse danneggiare irrimediabilmente il cervello.

Giusy si risvegliò ed i presenti la aiutarono a mettersi in posizione seduta.

Era intontita per lo sforzo e per lo sbalzo pressorio e per l’incredulità dell’accaduto.

Non senza sforzo, si toccò le braccia e le gambe, avvedendosi che non erano bagnate, ma perfettamente asciutte. Eppure aveva visto con i suoi stessi occhi, quell’acqua risalire lungo il suo corpo, attraverso i suoi vestiti e la sua pelle. La situazione era davvero surreale.

Il medico si fece portare una bottiglia d’acqua, e dopo averne svitato il tappo, gliela porse. Quest’ultima, che già si sentiva piena di liquidi, la rifiutò, ribadendo di star bene e chiedendo ai colleghi di tornare al loro lavoro e di lasciarla in pace.

Il direttore del centro commerciale, allertato dal trambusto e da una commessa che aveva assistito, sia pur da lontano, all’intera scena, si precipitò nel deposito, dove Giusy giaceva seduta in terra, sopra a dei cartoni. Accanto a lei solo il medico. Il direttore gli porse la mano, si presentò e lo ringraziò per l’opera meritoria che aveva svolto nei confronti di quella sfortunata dipendente.

Poi rivolgendosi a Giusy, le sfiorò una guancia, chiedendole informazioni sul suo stato di salute. Accertatosi che stesse bene e che non ci fossero rischi per la sua incolumità, la invitò a tornare a casa per riposare, chiedendole di ritornare al lavoro non il giorno dopo, ma il successivo.

Giusy accettò di buon grado la proposta del direttore, e ricompostasi alla meglio, prese le sue cose e si affrettò verso l’uscita. Passando dall’entrata principale, vide parcheggiata l’auto di Roberto, proprio sotto la grande insegna del centro commerciale. La luce rossa si rifletteva sul parabrezza e sulla vernice del tetto.

Giusy, istintivamente, si toccò le tasche, in cerca delle chiavi. Ma rientrò presto in se, avvedendosi che si trattava dell’auto di Roberto e non della sua. Affrettò il passo per raggiungere alla svelta la parte posteriore del parcheggio, dov’era l’area riservata ai dipendenti. Lì si infilò furtivamente nella sua auto e partì sgommando.

Aveva davanti agli occhi la scena di Roberto, il mancamento, la liquefazione, e la strana sensazione che nessuno avesse reclamato la sua scomparsa. Forse non aveva un granché di amici, ne concluse lei, come se gli amici, quelli che dovevano, a gran voce, reclamarne la scomparsa, dovessero essere tutti concentrati in quel luogo, quella sera.

Arrivò a casa in poco tempo e una volta al sicuro nel suo appartamento, si spogliò, mettendosi di fronte ad uno specchio.

Annusò a lungo i vestiti: sentì l’odore di Roberto. Li ripose in modo scomposto e violento nella lavatrice ed azionò il lavaggio più lungo, con la massima temperatura possibile, con l’intento di sterilizzarli.

Poi tornò nuda davanti allo specchio. Si guardò da tutte le prospettive possibili. La pelle era asciutta, morbida, ben idratata. D’altronde con tutta l’acqua che ho assorbito, pensò, come potrebbe essere diversamente. Continuava a pensare a Roberto e alla fine che avesse fatto, e a come nessuno si fosse realmente preoccupato per lui. Sembrava che tutte le attenzioni della serata fossero state rivolte a lei: i colleghi, il medico, il direttore. Ma Roberto dove stava allora? Dove diavolo era finito? Era dentro di lei, o era evaporato?

Decise di farsi una doccia: acqua scaccia acqua, pensò, e si precipitò sotto al getto dell’acqua ben calda. Si grattò con una spugna, fin quasi a prodursi delle escoriazioni sulla cute. Alla fine, avvolta nel grande accappatoio rosa, pensò di sentirsi più leggera, e, immersa in quel grande mistero, si precipitò a letto, dove si addormentò quasi subito.

La notte fu alquanto travagliata, tra risvegli improvvisi, costrizioni al petto e mancanza d’aria.

Maledetta ansia, continuava a pensare nei momenti di veglia. Devo dormire: il sonno mi farà bene. Il sonno è riparatore. Il sonno andava e veniva, mentre il tempo non passava mai. Il ticchettio dell’orologio della cucina, divenne quasi insopportabile. Eppure quell’orologio era lì da anni, e sembrava che non avesse mai fatto tutto quel rumore. Giusy era bella anche nel suo letto bianco, con il piumone che la copriva fin sopra alle guance che tanto facevano impazzire gli uomini. La mattina si alzò dal letto intontita, come se avesse fatto una maratona. Si precipitò in bagno per guardarsi allo specchio. Non aveva, di certo, una bella cera. Il pensiero di Roberto continuava a tormentarla. Si soffermò, poi, anche a pensare di come fosse possibile che nessuno avesse chiamato la polizia. Eppure un giovane uomo era morto, insomma si era liquefatto. Ma liquefarsi e morire, potevano essere assimilabili, o addirittura si potevano sovrapporre?

Oddio, pensò, ma con grande probabilità quell’uomo è entrato dentro di me, perché dall’esterno non vedo nulla di strano, nemmeno una protuberanza della pelle.

Si lasciò tormentare dal pensiero per l’intera giornata, tanto che arrivò a maledire il giorno di riposo forzato che le era stato assegnato. La giornata trascorse lenta, dividendosi tra il divano ed il letto. Ogni certezza, anche quelle certezze che aveva maturato sin da bambina, erano svanite in quella giornata di ansia ed attesa. Attesa per cosa? Pensò lei.

Fu tentata più volte di scrivere un messaggio a Roberto. Più volte aveva preso in mano il cellulare, e altrettante volte aveva desistito. Come avrebbe reagito se Roberto, come sembrava logico, non avesse risposto ai suoi messaggi? E il ricordo di Roberto, l’avrebbe gettata in quella spirale insensata, in una rincorsa di sensazioni di cui avrebbe fatto, giustamente, a meno. A meno che, elaborato l’accaduto, non trovasse il modo per far uscire Roberto dal suo corpo, ridandogli la forma e la vita come essere umano. Per quanto si sforzasse di pensare ai fatti di cronaca, alle notizie lette sui giornali, e finanche alla letteratura, anche quella più alta, mai aveva sentito parlare di una persona che si fosse liquefatta.

Cercò di documentarsi come meglio poté sulla liquefazione, ma non c’era nulla da sapere: notizie su un tal fatto fenomeno, proprio non esistevano.

La giornata trascorse lenta, ma trascorse. Ritornare a letto fu quasi una benedizione, così come benedetto era il fatto di poter tornare al lavoro.

L’indomani mattina, si svegliò di buon ora: quella notte, finalmente, aveva dormito. Cercò di distaccarsi dal pensiero assillante che aveva e decise di farsi bella per andare al lavoro. Si passò il fondotinta sul viso e poi il mascara più scuro che aveva, sulle sopracciglia. Con la matita nera disegnò delle linee che contornavano gli occhi, fuoriuscendo verso l’esterno, creando l’effetto di occhi più allungati, quasi da gatta. Fu tentata di passarsi il rossetto rosso sulla bocca, poi optò per un più discreto lucida labbra. Uscì presto di casa ed arrivò al centro commerciale che ancora era chiuso il cancello d’ingresso, ma mai come quella mattina fu felice di essere lì. Il custode arrivò poco dopo, ed aprì il cancello con una chiave tirata fuori da un gran mazzo di chiavi. Il parcheggio era vuoto. Anche l’auto di Roberto non c’era più. Qualcuno l’avrà ritirata, pensò tra se. Ma se qualcuno l’ha ritirata, significa che qualcuno si è accorto della sua scomparsa. Questo pensiero le diede sollievo. Qualcun altro era stato in pensiero per quel povero disgraziato e si era preso pena per la sua sorte. Non era più sola e poteva condividere con un’altra anima pia la perdita di quell’uomo colto e buono, dallo sguardo sagace e dalla parola fluida.

Alle 7.50 era già in giro per i corridoi del supermercato, elegante nella sua divisa scura, lo sguardo fiero di chi sa di averle viste proprio tutte. Il sorriso di chi sa di star bene ed è felice di esser tornata a fare il proprio lavoro. Le guance belle, sollevate verso l’alto, davano un senso di benessere, che traspariva anche dal modo fiero di camminare e dallo sguardo dai grandi occhi scuri.

Incrociò qualche collega nelle corsie. Tutti chiedevano del suo stato di salute e si complimentavano per il fatto di vederla così in forma. Le ore della mattina trascorsero veloci. In tanti si complimentarono per la sua capacità di recupero. D’altronde il suo fisico asciutto, ben allenato, scultoreo, faceva pensare proprio ad una persona in perfetta forma.

Giusy si meravigliò per il fatto che nessuno le facesse cenno alla vicenda di Roberto. D’altronde non era normale il fatto che una persona svenisse e poi si dissolvesse in mezzo alle corsie del supermercato, tra i barattoli delle marmellate, le verze e i peperoni.

Ma nonostante tutto nessuno faceva riferimento a quanto accaduto. Nessuno parlava di accadimenti particolari. Tutto sembrava scorrere secondo un copione di estrema normalità.

Al termine del turno di lavoro, Giusy fu convocata dal direttore, che, al pari degli altri colleghi, si informò del suo stato di salute e se avesse bisogno di ulteriore riposo. Fu allora che Giusy , decise di chiedere, togliendosi il macigno dallo stomaco, del perché nessuno le chiedesse come stesse Roberto, o, addirittura, che fine avesse fatto.

Quale Roberto, rispose il direttore, con aria di meraviglia.

Roberto, il signore che viene spesso a fare la spesa, da solo. Insomma il nostro cliente.

Va bene, rispose il direttore sorridendo, come sta il nostro amico Roberto? E poi si precipitò in una sonora risata.

Giusy lo guardava sempre più stranita. Ma, direttore, perché si comporta così? Il ragazzo è scomparso, si è liquefatto nel nostro negozio e lei ride?

Che….che cosa sta dicendo? Si è liquefatto nel nostro locale? E continuò con la sua risata, che si era, addirittura, accentuata, tanto che dovette piegarsi in avanti e mantenersi l’addome.

Direttore, ma cosa ho detto di strano? Proseguì Giusy , che proprio non comprendeva.

Ma come cosa hai detto di strano? Hai appena detto che un uomo si è liquefatto nel nostro negozio. Hai mai visto un uomo trasformasi in acqua o in altro liquido?

No, direttore. Cioè, no, prima di questo evento.

Ma di cosa diavolo stai parlando, proseguì il direttore, che aveva smesso di ridere, e cominciava quasi a preoccuparsi.

Ma, insomma, dell’evento cui ho fatto cenno poco fa.

Tesoro, sorrise il direttore, non c’è stato nessun uomo svenuto, nessuna liquefazione. Anzi ad onor del vero, l’unica ad essere svenuta sei stata proprio tu. Sei rimasta incosciente per diversi minuti, prima che un medico ti soccorresse e ti facesse rinvenire. Ti ricordi?

Mmmmm, ehm, si sì mi ricordo. Mi scusi direttore, mi sa che ho confuso la realtà con la scena di un film, ed uscì dalla stanza con la testa abbastanza confusa.

Ritornò presto nel supermercato e, dopo essersi cambiata, si avviò verso l’uscita.

Non fece in tempo ad arrivare al tornello, che si ritrovò Roberto di faccia.

Il suo volto si illuminò, e mille pensieri le passarono per la mente: l’incidente accorso, l’acqua, l’aver assorbito quell’acqua, la giornata a casa, ecc ecc. Mille emozioni le attraversarono il corpo e la mente. Giusy non seppe resistere a quell’insieme di emozioni e cercò di stemperarle abbracciando Roberto.

Quest’ultimo, colto di sorpresa, in un primo momento, rimase sbalordito per quel comportamento, poi facendosi coraggio, le confessò che era ritornato con la speranza di vederla, e con l’intento di invitarla a cena.

Giusy, felice, accettò l’invito e pianse. Era il suo pianto liberatorio.

Pubblicato da Giuseppe Tecce

Scrittore di saggi e romanzi

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