L’immagine di Alexei Navalny è arrivata, nel tribunale, attraverso uno schermo. La luce livida, il volto pallido, le mani intrecciate alle sbarre della prigione dove il più noto tra gli oppositori di Vladimir Putin – tornato in Russia nonostante sapesse il destino cui andava incontro, dopo aver subito un tentativo di avvelenamento con un agente nervino – sta passando i suoi giorni. E dove non passerà i prossimi anni: quelli li trascorrerà – è diventato ufficiale, oggi, con la sentenza di appello – in una colonia penale, la numero 7 della città di Melekhovo, famigerata – secondo il portavoce del dissidente – «per le torture cui vengono sottoposti i prigionieri».
Prima di ascoltare la sentenza, Navalny ha fatto due cose.
La prima: ha attaccato Vladimir Putin. Usando espressioni che nessuno, in Russia, può utilizzare in pubblico – non impunemente. «Un matto ha messo i suoi artigli sull’Ucraina e non so cosa ne voglia fare, questo folle ladro», ha detto. «Questa è una guerra stupida che il vostro Putin ha cominciato, è una guerra costruita su menzogne- Cosa volete ottenere? Volete il controllo nel breve periodo, combattere con le future generazioni, combattere per il futuro della Russia? Subirete tutti una sconfitta storica».
La seconda: ha raccontato una storia. Sapendo che a ripeterla sarebbe stata, al mondo, la sua portavoce. La storia è quella di Natalia Repnikova: la giudice che lo scorso anno convertì la sua sentenza, trasformandola in effettiva da «sospesa» che era. Quella giudice, ha detto Navalny, è morta sei mesi dopo la sentenza: «Ufficialmente per Covid».
Poco prima della sua morte, secondo la portavoce di Navalny, Repnikova avrebbe segretamente fatto sapere a Navalny, attraverso dei legali, di essere pentita della sua decisione, e di considerarlo un uomo coraggioso.
«Putin può spezzare un gran numero di vite», ha detto Navalny oggi, prima che il collegamento venisse interrotto. «Ma prima o poi sarà sconfitto».
