Siamo tutte partigiane.
Le donne che (r)esistevano.
” Lettere dal fronte” da ” La feudataria”
che un giorno forse, se mai deciderò, diventerà un libro.
Il 14 settembre del 1943 , la città fu devastata dal bombarbamento delle truppe alleate, che sbagliarono obiettivo: dovevano distruggere il ponte della Ferriera , individuato come punto strategico del nemico, invece sganciarono le bombe sul centro abitato: le vittime innocenti, un un giorno di mercato , furono tremila. Considerando la popolazione di allora, morì una persona su tre: i corpi furono seppelliti nelle voragini provocate dalle bombe, per scongiurare epidemie, laddove, ora, sorge un monunento alla memoria.
Il terremoto dell’ 80 ha provocato lo stesso numero di morti, ma nell’ intera provincia.
Dopo anni, si scoprì che al comando degli aerei alleati vi fossero delle donne.
A seguito dell’ immane catastrofe, molte famiglie si rifugiarono in campagna, anche perché nel cuore della città non erano rimasti altro che cumuli di macerie.
Zia Carolina ospitò molte famiglie nel suo ” feudo”, sicuro e accogliente come un ventre di vacca, ma di questo ho già raccontato.
Nella valle erano rimasti solo donne, vecchi e bambini, perché gli uomini erano al fronte, per difendere la Patria; Speranza spedì suo figlio da alcuni parenti lontani, per evitargli il richiamo alle armi, ma Cenzino lo andò a riprendere fin sul monte del Pollino, dove si era nascosto e a calci lo accompagnò in caserma.
Il poverino si finse moribondo, ma il padre lo trascinò via, senza nessun indugio.
- Tu vuò fa ‘o fesso pè non gli’ a guerra ! – gli urlava tra una pedata e l’ altra.
Persino quello scansafatiche di Masuccio partì, ma per altri reconditi motivi.
L’ unico filo che legasse le famiglie e le innamorate ai propri cari partiti per la guerra, erano le lettere al e dal fronte.
In quella piccola comunità rurale si iniziava a lavorare nei campi in tenera età, ritenendo il saper leggere e scrivere superfluo per raccogliere il grano o per mungere una vacca, soprattutto per le donne, il cui compito era accudire la casa, oltre naturalmente al lavoro nei campi.
Per loro diventava difficile poter far sapere ai figli, ai mariti, ai fidanzati , laggiù nei campi di combattimento, ciò che provavano per la lontananza forzata e zia Carolina le aiutava, scrivendo i loro pensieri, le loro paure e le loro speranze.
Soprattutto le giovani moglie e le innamorate confidavano a lei i pensieri più intimi, dedicati ai loro uomini lontani.E lei non si limitava alle parole di circostanza e ai soliti saluti: usava parole d’ amore, censurate dalla moralità dell’ epoca.
- Ti invio un bacio pieno d’amore – scriveva e le giovinette arrossivano, poi si stringevano nelle spalle e sospirando, sognavano il momento in cui quelle parole fossero state lette. Una spruzzata di acqua di colonia, infine un fiore tra le pagine e poi l’ attesa.
Era il massimo dell’ audacia.
Biagio, il postino, percorreva la strada sterrata che portava al podere della Feudataria, con una vecchia Bianchi: con una mano dirigeva la bicicletta e con l’ altra sventolava le missive arrivate dal fronte. Tutti lasciavano le proprie ambascie, per raggiungerlo, alle fine della strada, sotto il vecchio olmo davanti allo scalone.
Come un messaggero degli dei, scendeva dal cavallo alato, appoggiava il berretto sul ramo più basso, si asciugava la fronte con un fazzoletto a quadretti e distribuiva la posta.
- Stanno tutti bene – spiegava.
Qui il dubbio: conosceva il contenuto?
Prima di ritornare in paese, Cenzino gli offriva un buon bicchiere di vino, una fetta di pane nero, un po’ del loro formaggio, ancora fresco di siero.
Non andava mai via a mani vuote.
Tutti aprivano quelle buste, senza capirne il contenuto, ma tanto bastava per sentire il calore e l’ affetto di chi scriveva.
Speranza stringeva al petto la lettera del figliolo. – Figlio bello, che brutta scrittura! – cercava di giustificarsi, per quelle parole sconosciute agli occhi, ma leggibili dal cuore.
Biagio era un eroe.
Quel giorno, zia Carolina era andata in città con mio padre e Annetella non vedeva l’ora di sapere cosa le avesse scritto Pietro. Nascose la lettera nel cesto delle mele appena raccolte e si diresse verso la chiesa.
Srotolò il fazzoletto che aveva usato per reggere la cesta sul capo, o’ truocchio”, e se lo sistemò in testa.
Don Giacomo si stava preparando per dire messa, ma le dedicò tutto il tempo rimastogli.
- Questa è una lettera di Pietro. Come sta, che dice? –
Il parroco si pulì le mani sulla tonaca e iniziò a leggere. Dopo le prime righe, sussultò e si fece il segno della croce. - Questa è una lettera del demonio. Fila subito a casa, svergognata !
- Mia amata – recitava – dopo aver letto le tue parole così piene d’ amore, ti dedico questi frasi – e seguivano dei versi un po’ licenziosi per l’ epoca, tratti da ” Alcyone”, scritti per Pietro, anch’ egli analfabeta, dal tenente medico del campo.
La sera stessa, Don Giacomo si recò da Carolina. - Donna Carolì, noi dobbiamo parlare – le disse davanti al portone di casa.
Lo fece accomodare vicino al fuoco e dopo che si fu ripreso dalla lunga camminata fin laggiù, fu Zia Carolina a introdurre il discorso. - Annettella è venuta qui in lacrime – gli disse – cosa le avete detto? –
- La guerra è guerra e la carne e carne – commentò lui – voi siete una donna timorata di Dio, non potete mettere nella testa di questi ragazzi le parole del demonio – concluse, dandale la lettera.
Lei lesse attentamente. - A parte il fatto che queste non sono le parole del diavolo, ma di D’ Annunzio, voi parlate di carne e qua c’è solo pane e formaggio. Al fronte nemmeno quello tengono. Si riempiono la pancia con vane parole d’ amore, che nutrono anche il cuore, nell’ attesa di morire ammazzati in un campo di grano maturo, in mezzo ai papaveri.
Molti anni dopo, Frabrizio De Andrè scriverà ” La guerra di Piero”.
