James Bode è un mito

James Bode, tassista di Catasauqua, in Pennsylvania, è diventato in questi giorni un simbolo della lotta al razzismo negli Stati Uniti. Venerdì scorso, poco dopo le 22.30, Bode stava per caricare una coppia fuori da un ristorante. La donna, la signora “Jackie”, accomodandosi sui sedili posteriori gli ha detto con un sorriso: “Sei uno normale, un bianco che parla inglese”. Il tassista ha definito “totalmente inappropriate” quella parole e ha rifiutato la corsa, facendo scendere dalla sua macchina la signora (poi identificata come Jackie Harford, proprietaria di un bar) e ricevendo gli insulti razzisti del suo accompagnatore, che ha anche minacciato di prenderlo a pugni. Usando il filmato della cam installata nella sua vettura, Bode ha poi sporto denuncia contro la coppia per la “minaccia di aggressione”.

Da oggi, James Bode, diventa un mio nuovo mito. L’ennesimo personaggio da ricordare nell’immenso mare dell’indifferenza e della cattiveria.

L’agente della Terra di Mezzo e i ciclisti di oggi

Che magia, quando scopri che il cammino, narrato nel tuo libro, diventa il cammino, ecologico, di 10,100,1000 persone che ricalcano le vie che hai fatto, che ti hanno emozionato ed hai raccontato nel tuo libro. L’agente della Terra di Mezzo è un viaggio nella realtà e nei sentimenti di una terra verde e magica: l’Irpinia. Un percorso da fare per scoprire la vera anima dell’Italia del Sud.

A Babij Jar

Si parla spesso, negli ultimi tempi, del fatto che l’ucraina sia nazista, a tal punto che Putler si sia preso la briga di scendere in campo per andare a denazificarla.

Voglio ricordare, però, che l’ucraina, oltre ad avere un Presidente ebreo, ha sofferto tantissimo a causa dei nazisti, anche locali, ed uno dei simboli più importanti, di tale sofferenza, è Babij Jar.

A Babij Jar, tra il 29 e il 30 settembre 1941, trovarono la morte 33.771 ebrei, fucilati e sepolti in una enorme, immensa fossa comune.

Guarda il video.

Babij Jar

Ascoltiamo il Nobel per la letteratura

Svetlana Aleksievic è nata in Ucraina nel 1948 ma è cresciuta e ha vissuto prevalentemente in Bielorussia. Oppositrice del regime del presidente Aleksander Lukashenko, ha trascorso lunghi periodi in esilio ed è dovuta fuggire in Germania nel 2020. Da giornalista e scrittrice ha raccontato le principali vicende dell’Urss e della Russia nella seconda metà del Novecento in una serie di romanzi corali basati su centinaia di testimonianze. Nel 2015 ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura “per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo”.

“Quando ho ricevuto il premio Nobel dissi che avevo due case, perfino tre – racconta – la Bielorussia, l’Ucraina e la cultura russa. Ma erano tempi completamente diversi, e tutti noi eravamo sotto l’influsso grandioso della cultura russa, sentivamo tutto il suo incanto, mentre oggi sembra di essere in un altro mondo. Dobbiamo domandarci, e domandare all’intera élite russa, perché la cultura del Paese è divenuta impotente, perché non aiuta in questa situazione tragica, perché le persone non si rivolgono alla parola della cultura, e non la ascoltano, e invece ascoltano soltanto la televisione”.

“Fino a poco tempo fa parlavamo di una nazione spirituale – continua Aleksievic – di un Paese che, come sempre si dice, legge più di ogni altro: ed oggi, ecco, siamo arrivati all’argento non fresco da togliere ai morti… E tenga conto che potrei fare moltissimi esempi come questo. Quando, dopo lo scontro armato, il battaglione ripiega a riposare in Bielorussia, arrivano prima i carri armati colpiti e i blindati ammaccati, e subito dopo li seguono i Kamaz, i camion carichi di lavatrici, frigoriferi, biciclette da bambino… Una razzìa. E io mi sento disperata, e penso a come si può trovare una strada per raggiungere questo tipo di umanità, come scegliere le parole perché la gente capisca che sono cose terribili. La Russia sta facendo quello che i nazisti facevano sul suo territorio: ora abbiamo a che fare col fascismo russo”.

In ricordo di Buffalo

Tra le vittime della strage di Buffalo c’è Pearly Young, 77 anni, uccisa mentre faceva la spesa, da un terrorista suprematista bianco.
Per 25 anni ogni sabato Pearly dava da mangiare ai bisognosi del quartiere Central Park, nel tempo libero cantava e ballava.
Era una nonna, una mamma e una missionaria.

Ovunque c’è il fascismo, in qualsiasi parte del mondo, lascia dietro di sé una coda di odio e morte.

Fonte Madison Carter

Da paese a Nazione fino all’Eurovision

Dunque, come avevo pronosticato qualche giorno fa, i ragazzi dell’Ucraina hanno vinto L’Eurovision. Questa è una gran bella notizia, innanzitutto perché il pezzo è bello ed è pieno di energia positiva, e poi perché i musicisti sono proprio bravi. Oramai la Russia ha perso su tutti i fronti. Aveva attaccato un paese qualsiasi e, oggi, ne ha fatto una nazione ; ha rinsaldato un sentimento nazionale, che, altrimenti, ci avrebbe messo anni o secoli ad emergere. Ha dato vita ad un processo di maggiore unione tra gli stati europei e ad un allargamento e fortificazione della NATO. Ha tirato fuori, con prepotenza, la cultura Ucraina (ora tutto il mondo sa dove di trova l”Ucraina, come si vive e cosa pensano).
Lunga vita ai Kalush Orchestra.
Ma voglio porre un paio di domande:
1) come fa il cantante a vedere, con quel cappello abbassato sugli occhi?
2) come diavolo si chiama quel flauto strano che suona ogni volta dopo il ritornello?

Franco Battiato ed i Dervishi rotanti ad Istanbul

Correva il mese di Aprile del 2014 e ancora una volta Battiato entrò con prepotenza nella mia vita. Ero ad Istanbul per un progetto europeo sulle disabilità. Dopo 4 giorni di lavoro ad Izmit sul mar di Marmara, ci trasferimmo ad Istanbul per una due giorni di immersione nella vita cittadina. Dopo una lunga giornata, trascorsa tra Aghia Sophia, la Moschea Blu ed il Suq, mangiammo baklava come se non esistesse un domani, ed arrivò la sera. I miei colleghi decisero di continuare la serata, mangiando in un ristorante sul Bosforo. Ma io avevo ben altri programmi per la mente, più che una semplice cena in compagnia.
Dopo intere giornate passate ad ascoltare e a cantare “Voglio vederti Danzare” di Franco Battiato , il verso relativo ai Dervishi Rotanti mi rimbombava nel cervello. Potevo non approfittare della mia presenza ad Istanbul per andare a salutarli, a parlarci, ad abbriacciarli? Così, sfanculati i miei colleghi, mi recai spedito dal portiere dell’hotel e gli spiegai, seppur con un inglese claudicante, della mia passione. Ci pensò per un attimo, poi, con voce ferma, mi comunicò: sei fortunato, oggi è giovedì ed è il giorno in cui si riunisce una confraternita Sufi dove ci sono i Dervishi. Chiamò immediatamente la confraternita al telefono, si accertò che gli stranieri fossero ammessi, e mi prenotò un taxy, che arrivò di lì a 10 minuti, dandogli indicazioni precise sul dove portarmi. Il tassista parlava solo in turco ed era complicatissimo approcciarsi a lui. Presto lasciò le strade principali cominciando a spingersi nei vicoletti della città antica, pavimentati a basoli e illuminati da lampioni a luce gialla. Era la città più antica, quella romana. Arrivò fin dove poteva, poi si fermò. La macchina non poteva procedere oltre, i vicoli erano eccessivamente stretti. Mi fece scendere, pagai e mi indicò con la mano di andare, dapprima, dritto e poi di svoltare a destra. Erano le 20.30 di un giovedì di aprile. Era già notte fonda, nei vicoli non c’era anima viva e tutte le case erano chiuse. Mi incamminai, così da solo, nella direzione che mi aveva indicato, sperando di aver capito bene. Fortunatamente dopo 5 minuti di cammino tirai un sospiro di sollievo, quando in fondo ad una strada, vidi un’insegna accesa con una parola che assomigliava vagamente a quella di confraternita. Bussai alla porta e mi aprí una donna, gentilissima. Mi prese con cura il giubbotto e lo appese all’appendiabiti, mi fece togliere le scarpe e le ripose in una enorme scarpiera a muro piena fino all’inverosimile di altre scarpe. Poi, scalzo mi fece entrare in una grande sala con una grande rotonda di legno al centro e due spazi laterali, uno a destra ed uno a sinistra, allestiti con delle sedie. Seduti sulle sedie di sinistra vi erano solo uomini, e in quelle opposte, a destra, vi erano solo donne. La signora che mi aveva accompagnato mi disse in inglese che era proibito fare fotografie e si congedò. In 10 minuti fecero ingresso sulla rotonda circa 10 uomini, vestiti con mantelli scuri, che ben presto tolsero mostrando gli abiti tipici dei Dervishi, bianchi, con la parte bassa formata da una gonna scampanata che avrebbe dato vita a quella tipica figura dei Dervishi rotanti, quando avrebbero iniziato a girare. Un uomo più anziano li toccò sulla fronte, uno per uno, dando inizio alla parte mistica. Recitando delle preghiere i 10 uomini si diedero a volteggiare al centro della rotonda, prendendo presto la tipica posizione dei dervishi rotanti in preghiera. Si perché in sostanza, quello è il loro modo di pregare. Sono asceti della religione musulmana, accaniti sostenitori della pace e per questo, spesso, non ben visti dai musulmani radicali. Nel mentre che si svolgeva lo spettacolo, ci portano delle vivande: prima dei contenitori con una sorta di pasta, che sembrava cotta al forno, e poi una bevanda a base di kefir, veramente buona. Finiti tutti i volteggiamenti, dopo circa 45 minuti, prese la parola un uomo anziano, ben vestito, che, seduto al centro della rotonda, che cominciò una predica. Non so cosa dicesse in turco, ma una cosa la so per certa e cioè che tutti i presenti all’unisono iniziarono a piangere, in un pianto a dirotto, che non trovava consolazione. Finita la predica, tutti i presenti si misero in fila davanti a quest’uomo ed iniziò un baciamano intenso, anzi qualcuno gli si buttò ai piedi, baciandoglieli. Per non mancare di rispetto a questa persona, mi misi anche io in coda e gli baciai la mano. Finito tutto quello che c’era da fare, verso mezzanotte uscimmo all’esterno del centro culturale. Solo, spaesato, senza sapere la lingua e senza sapere dove mi trovavo, feci una decina di passi verso la fine del vicolo, quando dalla strada di dietro sbucò una macchina, grande, una di quelle a 7 posti, e dentro si sbracciavano 4 persone, che poi riconobbi essere presenti nella sala. Di fatto si offrirono di accompagnarmi in hotel e con un’ospitalitá come poche mi offrirono da bere, e poi gomme da masticare e quant’altro fino a quando non mi lasciarono davanti all’ingresso dell’hotel.
Anche in quella giornata fui grato a Franco Battiato che aveva influenzato l’andamento della mia giornata e della mia esistenza.
Ps: le foto che qui posto sono un dono, perché sono riuscito a scattarle di nascosto in un centro culturale Sufi di Istanbul, dove scattare foto era severamente vietato.

Dervishi
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